Marcia a Roma, la prima puntata
11 Aprile 2016Iniziamo un viaggio che, un capitolo a settimana, ci porterà ai Mondiali di Marcia a squadre, il 7 e 8 maggio a Roma. Oggi Abdon Pamich ricorda l'Olimpiade del 1960.
Giorgio Cimbrico
Primi a marciare a Roma, su eccellenti lastricati, i legionari avviandosi verso le strade consolari: c’era chi, a itineribus più o meno expeditis, andava verso nord a dare il cambio a una guarnigione o chi si dirigeva a sud per domare rivolte degli schiavi o dare la caccia, sistemati come marines sulle triremi, ai pirati della Licia. Un paio di millenni dopo, il 30 novembre 1900, il campionato romano sui 22 km registrò la vittoria di Luigi Bigiarelli che a 24 anni aveva alle spalle già dure esperienze: sottufficiale dei bersaglieri, era in Africa Orientale quando il Regio Esercito provò per la prima volta a violare le frontiere dell’Impero d’Etiopia. Il disastro di Adua pose termine all’avventura.
Quattro anni dopo venne inventato il Giro di Roma, di corsa (primo alla meta, l’edicolante sabino Pericle Pagliani) ma anche di marcia. Grazie a Vanni Loriga, vecchio fusto che nella sua lunga vita ha interpretato le parti di atleta (marciatore, naturalmente), ufficiale, giornalista, e di Augusto Frasca, maestro di stile ed esploratore delle fonti, è possibile rinvenire il nome di chi il 1° gennaio 1904 percorse da vincitore quei 17 km: Giovanni Coccia, tesserato per la società il Pedale. Il successore – per tre edizioni - fu Arturo Balestrieri, medaglia d’argento al valor civile per aver salvato chi stava soccombendo alla corrente del Tevere. E riportò fatalmente al tempo della Roma repubblicana – e alla turbolenza delle guerre civili – il nome di chi dominò il Giro negli anni che precedono e seguono la Grande Guerra, infilando otto vittorie: Silla Del Sole, postino e così abituato a fare buon uso dei piedi.
La tradizione non venne meno e la pace andò di pari passo al ritorno del Giro: nel 1945, starter Giulio Onesti, l’uomo che aveva appena avuto in sorte la rinascita dello sport italiano; vincitore, Mario di Salvo. Sta per entrare in scena l’innamorato che etichetterà con la passione di una vita la sua società: Tacco e Punta. Anche in questo caso i genitori avevano scelto un nome antico: il tramviere Tudoni si chiamava Ercole. Ma avrebbe dovuto essere Archimede: un inventore instancabile che diede nuova linfa al Giro (che finì anche sullo schermo in “Mamma mia che impressione”, con un giovane Alberto Sordi e con un immancabile Carlo Bomba, portantino al Regina Elena) e partorì la Roma-Castelgandolfo, camminata papale di 33 km da piazza San Pietro alla residenza estiva del Pontefice: quel buonanima di Pino Dordoni la vinse sei volte, Abdon Pamich sette, da aggiungere al raccolto sterminato di dodici Giri, in un arco di tempo che sfiora il ventennio.
Per quel che capitò nella 50 km olimpica del 1960, la parola a Pamich, fiumano, genovese, ormai da decenni romano: “Non era come adesso che anche per la 50 km si va avanti e indietro su un rettilineo di un chilometro, roba da far girare la testa. A Roma si partiva dallo Stadio Olimpico, si scendeva per il Lungotevere, si prendeva per la Via del Mare e dalle parti di Acilia c’era la boa di ritorno e a quel punto io ero lontano dai primi, cinque minuti, tanti, perché avevo dei problemi: se non gareggiavo, non riuscivo a entrare nella condizione giusta e Giorgio Oberweger, il direttore tecnico, non era d’accordo e quando gli avevo chiesto di fare una 30 prima dei Giochi, mi aveva risposto picche, e visto come andò, da allora decisi di far da solo e qualcosa di buono mi sembra di aver combinato. Torno a quel 5 settembre, un giorno molto caldo, 35° se ricordo bene, e la partenza alle 15, nel momento del sole più spietato. Venivo da Schio, dove c’era già un annuncio di autunno. Avevo bisogno di pace e di fresco e a Roma non trovavo né l’una né l’altro. Solo una notte ho passato al Villaggio: ero finito in una stanza sottotetto e non riuscivo a chiudere occhio. Devo fare qualcosa, mi sono detto, e ho trovato un posto a Rocca di Papa e lì almeno sono riuscito a dormire. Voglio parlare della gara e mi capita di divagare: è normale perché quei Giochi, quell’atmosfera, sono ancora vivi. Roma organizzò una grande Olimpiade, offriva passione, scenari indimenticabili. Ricordo la lotta alla basilica di Massenzio, la maratona sull’Appia Antica e l’arrivo sotto l’Arco di Costantino e ricordo anche la folla: ce n’era un mare anche per la 50 km. A Roma amano la marcia. Quella folla finì per fregarmi perché, superate le difficoltà della prima parte, iniziai a fare gara di rimonta sui due che erano andati via dalle prime battute: Don Thompson, inglese, e John Ljunggren, svedese, un vecchione di 41 anni che aveva vinto la medaglia d’oro a Londra ’48. Dietro a loro si era messo un russo, Aleksandr Stcherbina, che ripresi nella salitina che c’è dalle parti di viale Marconi. Lì il rettilineo è lungo e lo spazio visivo è ampio: mi dissero che da quei due ero a meno di un minuto, ma mi ritrovai invischiato in un corridoio di corpi, giusto lo spazio per passare. Così li persi di vista, non ebbi più punti di riferimento e arrivò la medaglia di bronzo che era già un bel passo avanti rispetto a Melbourne quando ero finito, ancora dietro Ljunggren, ai piedi del podio. Quattro anni dopo, a Tokyo, il mio lungo inseguimento sarebbe finito”.
Per quel che riguarda la 20 km, è necessario viaggiare su e giù per il tempo e trovare sempre lo stesso vincitore: Vladimir Golubnichy, il protagonista della seconda puntata.
(1 – continua)
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