1970-2020: cinquant’anni di Assoluti indoor

17 Febbraio 2020

Da Genova ad Ancona, passando per Milano e Torino: mezzo secolo di storia e protagonisti dei campionati italiani in sala, che nel weekend celebrano l'edizione numero 51 nelle Marche

di Giorgio Cimbrico

I luoghi archeologici delle indoor italiane vanno cercati a Reggio Emilia (meeting Città del Tricolore), a Lucca (magnifico nome: palestra de’ Bacchettoni), a Brescia (la passione di Sandro Calvesi pulsava all’aperto e al coperto, in quel palazzo delle esposizioni ribattezzato Ciambellone), a Modena, e i suoi primi profeti portano i nomi di Eddy Ottoz e di quel buonanima di Pasquale Giannattasio che, sul finire degli anni Sessanta e nell’infanzia degli Europei (l’etichetta era ancora quella di Giochi), lasciarono quattro segni sui brevi e brevissimi rettilinei di Dortmund, Praga e Madrid. Per chi riusciva a metter le mani su qualche rivista straniera, l’atletica d’inverno aveva un simbolo, i Millrose Games al Madison Square Garden con i giudici in smoking e le pedane che potevano venir alacremente smontate per far spazio, l’indomani, all’hockey su ghiaccio o alle esibizioni di cavalli ed elefanti. 

Erminio Azzaro può fornire un’attendibile testimonianza legata a un suo antico viaggio oltre Atlantico, sino a quella specie di Broadway dell’atletica al coperto. Perché questi contorni fossero meno vaghi, di là dall’oceano venne la pista, in nudo acero canadese, che dopo lungo viaggio ferroviario, dallo scalo marittimo di Liverpool, sulla Mersey, a quello ferroviario di Terralba, venne acquistata dalla Fidal e recapitata a Genova, per essere montata sotto il tetto reticolare del Palazzo dello Sport della Fiera del Mare, all’inizio del 1970. Solo qualche mese prima l’Assemblea Nazionale aveva registrato la vittoria della corrente del Rinnovamento e l’inizio del lungo regno di Primo Nebiolo: la pista nuova di zecca assumeva facilmente il valore e la funzione di simbolo: la nuova atletica non poteva e non doveva più esser confinata tra la primavera e gli inizi d’autunno. Quella pista rappresentava un allargamento delle occasioni, delle opportunità, della visibilità di uno sport che sino a quel momento aveva vissuto en plein air.

Della prima edizione dei Campionati Italiani, in calendario non in inverno ma giusto allo sbocciare della primavera, 22 e 23 marzo 1970, esiste, ed è conservata negli archivi della Rai, una commovente sintesi in bianco e nero in cui si coglie lo spunto vincente di Pasqualino Abeti, il finale solitario di Franco Arese in un tempo appena al di là degli 8’, i tentacolari arti inferiori di Sergio Liani e il salto, ancora approssimativo ma con luce molto ampia, di una non ancora 17enne della Scala Azzurra Verona. “Sara Simeoni ha superato 1,64 e alcuni tecnici sono sicuri che possa arrivar presto a 1,67”, dice il curatore del riassunto.

Sara, con lunghi capelli scuri spartiti in due bande - come Olivia Hussey-Giulietta nella versione cinematografica di Franco Zeffirelli – e destinata a raccogliere altri nove titoli (per non parlare del resto…), venne ospitata negli studi milanesi della Domenica Sportiva, condotta da Lello Bersani, al fianco del romano Liani e del genovese Bruno Bianchi, primo campione italiano dei 400. Sia l’ostacolista che il quattrocentista sono incravattati e portano abiti scuri perfetti per un esame universitario o un lavoro d’ufficio. Sara indossa quel che appare come un soprabito di taglio sportivo. La ricerca dei particolari può sembrare eccessiva ma la storicità dell’evento lontano mezzo secolo obbliga alla pignoleria.

I tricolori ebbero culla e sede a Genova per 22 edizioni. Milano entra in scena e ne esce rapidamente dopo i fasti di due Europei: la nevicata di inizio gennaio 1985 è fatale al Palasport di San Siro. Curioso che il suo gemello, al Pireo, sia ancora in funzione dopo aver sopportato, con maggiore disinvoltura, una visita di quella che un tempo veniva chiamata “bianca messaggera dell’inverno”. L’ingresso in servizio del Palavela di Torino, nel pieno degli anni Ottanta, servì ad ampliare i palcoscenici, così come spezie vennero sparse, sin dalle prime edizioni, appiccicando l’etichetta Open, capace di dare ai campionati il sapore frizzante del meeting. I nomi nell’albo d’oro di Steve Riddick, Willie Davenport, Kjell Isaksson, Carlo Thranhardt, Brian Oldfield, Marita Koch, Ilona Slupianek, Stefka Kostadinova (è solo un elenco parziale, solo di all stars) chiariscono la strategia dell’atletica-spettacolo.

Mezzo secolo è un lungo tempo popolato di immagini (quella di Marcello Fiasconaro continua ad eccitare, a smuovere l’animo), di attimi fuggenti, di rimbombar di passi, di spari dello starter amplificati dalle volte, di passaggi dall’uno all’altro mare, dal Ligure all’Adriatico e ad Ancona diventata orgogliosa depositaria (senza dimenticare le edizioni di Firenze e Padova). Nella ricerca improvvisata, e così fatalmente superficiale, di quel che è stato, affiora un dato che oggi assume un valore sentimentale: la collezione di 14 maglie tricolori messe assieme, tra il 1993 e il 2012 da Paolo Dal Soglio. Quattro vennero indossate quando Leonardo Fabbri non era ancora venuto al mondo.

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