50 anni senza Consolini, Ercole del disco
17 Dicembre 2019Il 20 dicembre 1969 la scomparsa di una leggenda dello sport italiano, simbolo della rinascita dopo la catastrofe della guerra. Volto semplice di un Paese sparito, fu campione olimpico nel '48 e più volte primatista mondiale
di Giorgio Cimbrico
Il 12 dicembre 1969 una bomba straziò 17 innocenti e l’Italia. Otto giorni dopo, il 20 dicembre, ancora a Milano, una morte straziò lo sport italiano: a 52 anni scompariva Adolfo Consolini. Il più grande o uno dei più grandi fa poca differenza. Un volto semplice, di un Paese sparito, il discobolo prodotto da un’altra classicità, quella della campagna, il campione che dal destino ebbe poco tempo ma che lo utilizzò tutto occupando una, due, tre ere, il Maciste in giaccone di cuoio della sua avventura cinematografica in “Cronache di Poveri Amanti”.
Anni fa, scendendo verso il Garda, in compagnia di Sara Simeoni e di Erminio Azzaro, la strada portò a passare per Costermano che ad Adolfo ha dedicato un busto in piazza. Capitò di constatare con una certa commozione, forse con sorpresa, come certe sotterranee linee di sangue, certi ruscelli di linfa, attraversino i luoghi: tra Rivoli e Costermano correranno cinque chilometri lungo i quali allineare cinque medaglie olimpiche e altrettanti record del mondo, di Adolfo e di Sara.
Il lavoro nei campi, l’infortunio al braccio cadendo da uno dei cavalli che la famiglia utilizzava in un’agricoltura che usava ancora poco i cavalli-vapore e gustava il profumo di un altro vapore, quello che si alzava dal manto in certe albe di gelo; la scelta rustica di rieducarlo con il gioco del tamburello, una piccola prova di sé come lottatore: era troppo buono e quando fece scrocchiar le ossa di un avversario ne ebbe pena. Un timido Ercole che non infierisce su Caco.
Il partito assegna un bracciante a genitori che si lamentano di perdere una tale forza-lavoro, lo trasferisce a Milano e lui fa rizzare i capelli in testa a Boyd Comstock, il tecnico americano chiamato dal marchese Luigi Ridolfi per portare aria nuova sull’atletica italiana. Più tardi provocherà l’eccitazione di Giorgio Oberweger, l’albatros triestino che, terzo nel ’36, vede nel veronese l’erede e qualcosa di più.
Nell’offrire a una Milano livida e bellica un record del mondo, Adolfo precede Fausto: quello di Coppi, sull’ora, al Vigorelli, è dell’autunno del ’42; quello di Adolfo, in un singolare orario mattutino, le 11 del 26 ottobre 1941, viene misurato in 53,34 (8 centimetri oltre Archie Harris quattro mesi prima nella californiana Stanford) e ha come teatro il Giuriati. È la prima svolta: aveva esordito nel ’38, agli Europei di Parigi: quinto a 21 anni. La guerra gli porta via i Giochi del ’40 e del ’44 e gli concede quell’acuto.
Adolfo è il simbolo della rinascita dopo la catastrofe. Le prove sono i fatti: il 14 aprile 1946, ancora al Giuriati, in una gara “fredda” (secondo, un tal Selmi, con 36 metri scarsi), tra le 15.20 e le 15.30 allunga a 53,69 e a 54,23. È il favorito per gli Europei di Oslo, il primo appuntamento dopo la guerra. Un viaggio interminabile e periglioso, che veniva raccontato con particolari e grande spirito da Carlino Monti, velocista, giornalista, scrittore, milanese di una milanesità perduta: un volo a Marsiglia e di lì a Copenaghen, prima che una tempesta blocchi a terra e permetta il decollo solo il giorno dopo, quando al Bislett le gare stanno per iniziare. Consolini vince e sarà il primo dei suoi tre titoli europei, l’annuncio della gara olimpica e londinese sotto una pioggia sottile, il 2 agosto 1948, che costringe un giovane Brera a stendere un pezzo fluviale: occupa gran parte della prima della Gazzetta e tracima all’interno. Prende la testa Beppone Tosi da Castelletto Ticino, un corazziere che ama il rosso, specie il Ghemme delle sue parti. Risponde Adolfo spedendo un metro esatto più in là, 52,78. All’ultimo turno la pedana è un cerchio di fango: la linea bianca che è confine tra il lancio valido e il nullo è quasi invisibile e la parabola disegnata dall’americano Fortune Gordien sembra dannatamente lunga. La bandierina rossa annulla l’attesa di una misurazione che non avverrà. Meno di tre mesi dopo, all’Arena napoleonica, il campione porterà il record del mondo a 55,33, valicando la barriera sfiorata due anni prima da Bob Fitch a Minneapolis.
Di Adolfo, Brera fu ammiratore, aedo, persino una sorta di manager in quell’estate scandinava del ‘52 seguita ai Giochi di Helsinki (Consolini finì secondo, a poco più di un metro dall’americano Sim Iness) quando i due decisero di andare a battere la scena dei meeting del Nord. Il gigante italiano era un moderno Thor, paziente e gentile, e Brera racconta che in uno di questi borghi affacciati sul mare - più che meeting, sagra paesana, festa di gusto pagano - Adolfo esplose in una botta tremenda e di come lui, novello Sancho Panza, si dedicò a una misurazione effettuata con il più primitivo dei sistemi: la conta di lunghi passi. Furono sessanta: quel muro sarebbe stato abbattuto solo nove anni più tardi da Jay Silvester.
Brera conobbe a fondo Adolfo, misurò la sua timidezza, la ritrosia. E proprio nei giorni olimpici di Helsinki, nel bosco di Otaniemi dove sorgeva e sorge il razionalista villaggio in pietra e legno, divenne testimone della corte serrata, simile ad assedio, di Nina Dumbadze, bella georgiana che voleva a tutti i costi quel giovanotto dal profilo di medaglione. Dopo lunghi tentennamenti, la fortezza cadde.
Il resto è una successione di fatti: il terzo titolo europeo, nel ’54; la terza Olimpiade, a Melbourne, ormai quasi 40enne (sesto, nel giorno del primo asso calato da Al Oerter, l’uomo del poker); il giuramento letto con quella voce sottile, spezzata dall’emozione, nell’Olimpico romano. Adolfo vinse la sua ultima gara sei mesi prima di andarsene, per la Sal Lugano. Commemorarne le fattezze toccò allo scultore reatino Bernardino Morsani che, molti anni dopo, avrebbe onorato con una statua il centenario dell’impresa di Dorando Pietri.
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