Berlino, l'azzurro tenue dell'Olympiastadion
E' uscito lo zero. Per i nostri colori, in una manifestazione di dimensione mondiale all'aperto (inclusi i Giochi Olimpici) non accadeva da Melbourne 1956. Cinquantatre anni fa, quando le piste si disfacevano dopo il primo giro, e gli apparecchi televisivi (i pochi in circolazione) avevano le ante a mo' di armadio. Nelle undici edizioni precedenti quella di Berlino dei Campionati del Mondo, non era mai accaduto, anche se già a Helsinki 2005 - l'edizione dei record negativi in termini di finalisti e punti - si era sfiorato il rovescio, arginato in extremis dalla prima medaglia iridata (bronzo) di Alex Schwazer. In Germania, invece, il medagliere italiano non si è mosso dal palo. Inchiodato al punto di partenza da controprestazioni e fatiche stagionali, da vizi di programmazione ed imprevisti cali di forma, nel vasto campionario di motivazioni disponibile in uno sport individuale complesso ed articolato come l'atletica. A Osaka, due anni fa, la differenza l'aveva fatta proprio l'arrivo al meglio delle condizioni degli unici tre azzurri in grado di battersi per il podio, tutti finiti con pieno merito nelle premiazioni: il già citato Schwazer (ancora bronzo, due anni dopo la prima volta finlandese), Antonietta Di Martino (argento) ed Andrew Howe (argento). Schwazer, salito sul gradino più alto del podio olimpico un anno dopo, ha dovuto arrendersi quest'anno ad una giornata storta, di quelle che in una carriera già strepitosa come quella dell'altoatesino vanno inevitabilmente messe nel conto. Antonietta Di Martino è l'unica ad essere andata vicina ad una conferma, con una gara maiuscola che l'ha condotta ai piedi del podio (quarta con 1,99). Howe, al contrario, da quel salto magico nella serata giapponese, vaga alla ricerca di sé, bloccato da infortuni che continuano purtroppo a ripetersi con deprimente regolarità. Il margine con Osaka, o la differenza con i Giochi di Pechino, sta probabilmente proprio tutta qui: ovvero, nel non essere riusciti a portare i pronosticati sul podio. Perché, paradossalmente, medaglie a parte, la squadra ha fatto registrare progressi.
Otto finalisti in complesso (22 punti, diciannovesimi nella relativa classifica, composta da 62 paesi), uno in più di Osaka 2007, addirittura il doppio di Pechino, quando ne ottenemmo soltanto quattro (ma con due medaglie); ed il raffronto con l'Olimpiade, nella natura di questi piazzamenti, dice altre cose interessanti. La prima: Clarissa Claretti non è più sola. La martellista marchigiana, unica finalista proveniente dallo stadio in Cina, è stata raggiunta qui da cinque compagni (quattro in prove individuali, più la staffetta), tre dei quali dalle corse, laddove l'ultimo nostro finalista era stato l'Andrea Longo di Parigi 2003. La pista ha visto addirittura due azzurre in finale, tra le otto (le splendide Elisa Cusma negli 800 metri, sesta, e Silvia Weissteiner, settima nei 5000 dominati dall'Africa), entrambe appartenenti al tanto vituperato mezzofondo, veloce o prolungato che sia. Piccole cose (anzi, in verità piccole per niente), che danno la dimensione di una squadra in movimento, che torna a crescere nelle parti in cui era risultata più carente nel passato prossimo. La marcia, nel momento di difficoltà delle sue punte (oltre Alex, Brugnetti out, Rigaudo nona, 12 mesi dopo il bronzo olimpico), ha mostrato la propria inarrestabile vitalità, portando comunque due uomini in finale, il sempre più determinato Giorgio Rubino, finito ad un passo dal podio nei 20km, e il silenzioso Marco De Luca, granitico con l'ottavo posto, più il personale, centrati nella 50). La velocità ha probabilmente ritrovato un gruppo staffetta: i ragazzi (Roberto Donati, Simone Collio, Emanuele Di Gregorio, Fabio Cerutti, più Jacques Riparelli e Maurizio Checcucci), finalisti con pieno merito, possono guardare al futuro con ottimismo, se metteranno in pratica lo stesso low profile dei giorni berlinesi, fatto di lavoro e silenzio, di inquietudini sopite per l'interesse comune, come dev'essere in un gruppo squadra vincente. Manca all'appello Giuseppe Gibilisco. Ieri sera il sito internet di un importante quotidiano nazionale titolava a caratteri cubitali: "Gibilisco solo settimo". Senza entrare nel merito del bestiario giornalistico (che è ovviamente parte del gioco quando le manifestazioni diventano importanti come il Mondiale, e che non va vissuto come una disgrazia: se no, che farebbero nel calcio, con i riflettori accesi tutto l'anno?), va sottolineato il ritorno a livelli assoluti di uno dei pochi campioni a disposizione dell'atletica italiana. L'uomo, prima dell'atleta, sembra definitivamente risolto; ha ritrovato motivazioni, e soprattutto il gusto, il piacere di volare aggrappato ad un palo in fibra. Se non accadrà l'imponderabile, c'è da scommettere su di lui nell'immediato futuro.
Tutto questo senza contare gli atleti bloccati (parzialmente o totalmente) dagli infortuni, come il già citato Howe, come Claudio Licciardello (con 45.02 si è vinto il bronzo a Berlino), come lo stesso Fabrizio Donato, che merita rispetto per la scelta di mettersi comunque in discussione. O i sette uomini e donne, sempre rispetto a Pechino 2008, che non hanno saputo ripetere l'accesso alla finale o il piazzamento negli otto (in ordine sparso: Elena Romagnolo, Chiara Rosa, Christian Obrist, Filippo Campioli - sfortunato nella stagione 2009 - Ivano Brugnetti e i medagliati Schwazer e Rigaudo). Tutti potenzialmente in grado di offrire nuove pagine importanti nella piccola storia dell'atletica italiana. Aggiungiamo a loro, nel gruppo di quelli che potrebbero fare cose interessanti già dagli Europei 2010, anche l'enigmatica Libania Grenot, solo discreta nella gara individuale, e Silvia Salis, la cui definitiva esplosione dovrà avvenire, prima o poi. Meritano la citazione anche Nicola Vizzoni, nono e penalizzato dall'assurdo infortunio post Assoluti, Giulio Ciotti, bravissimo in qualificazione e undicesimo in finale (ma con la stessa misura del quinto), e Anna Giordano Bruno, tredicesima ad un passo dall'accesso alla prima finale di una carriera che sta diventando piuttosto interessante.
Niente medaglie, zero tituli, ironizzano alcuni parafrasando l'immortale Mourinho. E lo zero è lì, stampato, ingombrante, capace di fare ombra su tutto. E bene ha fatto il presidente federale Arese ad ammettere che non bastano tutti i finalisti possibili per compensare quel vuoto pneumatico. Perché è così. Il presente è grigio, il morale di molti, tifosi compresi, tendente alla luna storta. La condizione migliore, sempre in ossequio alla grande regola del paradosso, per ripartire con ancora maggiore decisione e slancio. Verso gli Europei di Barcellona 2010, verso i Giochi di Londra 2012.
m.s.
Nella foto, una visuale dell'Olympiastadion di Berlino (Giancarlo Colombo per Omega/FIDAL)
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