Billy Mills: una medaglia unica
14 Ottobre 2014di Giorgio Cimbrico
Gli anziani presero un po’ di tempo e magari si fecero anche una pipata: quel fumo acre, aromatico concilia la riflessione. E alla fine fecero fondere un anello con l’oro delle Black Hills, South Dakota, quell’oro che era costato il solito infrangersi del solito trattato e orrori e stragi e altra terra rubata (“una promessa mantennero, prenderci la terra”, disse Nuvola Rossa) e lo spedirono a Makoce Teh’la e gli scrissero che per loro era un guerriero della nazione Oglala, popolo dei Sioux. E quando Billy Mills ricevette l’anello e la notizia, pianse. Makoce Teh’la significa Ama la sua Patria. Billy, Sioux per metà, ne aveva due e le aveva amate entrambe e all’una e all’altra aveva offerto affetto, volontà, orgoglio e un sogno simile a una visione.
Oggi – 14 ottobre - è il 50° anniversario dellavittoria di Billy nei 10000, la prima e l’ultima di un americano, alle Olimpiadi di Tokyo e Barry Cohen, collega americano esperto del mondo della corsa, è stato al telefono tre ore con Mills. Un caro amico, Valerio Vecchiarelli, mi ha inviato il risultato di questa lunga conversazione che è anche il racconto di una vita, la vita del ragazzo nato nella riserva di Pine Ridge, altro luogo tragicamente famoso: lì, da un distaccamento del 7° Cavalleria e di polizia indiana, fu ucciso Toro Seduto.
Billy rimase orfano da ragazzo ma ha ancora un lucido ricordo del padre, dell’augurio che gli lasciò come un’eredità: “Farai tue le ali dell’aquila”. Quelle piume sono sul copricapo dei sakem. Gli studi a Lawrence, Kansas, in una scuola per nativi, l’arruolamento nel Corpo dei Marines, le due stelle da tenente, la corsa, la scoperta di essere ipoglicemico, vicino al confine del diabete, confessa lui, raccontando delle sperimentazione empirica per trovare un’alimentazione adatta.
“Chi è Billy Mills?”: è la domanda che comincia a ronzare quando conquista un posto nella squadra olimpica, secondo ai Trials alle spalle del giovanissimo Gerry Lingren. Ma nessuno gliela rivolge direttamente e così finisce che lui vive uno splendido avvicinamento alla gara: da lui nessuno si attende niente, lui da se stesso attende tutto. “Sapevo di poter vincere, l’ho scritto e riscritto sul mio diario, ma non domandarmi perché”. E così, nel repertorio degli aneddoti che hanno lasciato il segno, c’è quello della velocista polacca che, sul bus che porta gli atleti allo stadio, gli domanda: “E tu chi sei?”. “Billy Mills, quello che vincerà i 10000 metri”.
La solita giornata di un ottobre giapponese: umida, piovosa, con la pista ridotta a fanghiglia: il tartan era in concepimento e sarebbe stato partorito di lì a poco, per diventare protagonista Mexico City. La gara non doveva avere storia: nel ’63, a Melbourne, indossando una maglietta che portava stampato un boomerang, Ron Clarke aveva portato il record mondiale a 28’15”6 strappandolo a Piotr Bolotnikov e iniziando a inoltrarsi nel futuro. Ma, superati gli otto chilometri, nessuna frattura era stata inferta dall’australiano. Gli ultimi a cedere furono il giapponese Tsuburaya e l’etiope Wolde e alla campana Clarke si ritrovò in compagnia del tunisino Mohamed Gammoudi e di Billy; né l’uno né l’altro erano mai scesi sotto i 29’.
Toccò a Gammoudi, aiutandosi con le mani e approfittando della sua esile struttura, trovare un varco tra l’aussie e l’americano guadagnando qualche metro. Clarke colmò il distacco, Mills no e fu con questa situazione che i tre sbucarono sull’ultimo rettilineo, nel roar dei 75.000 dello stadio. “Avevo doppiato un tedesco e su quella maglia avevo visto un’aquila. Pensai: è la mia aquila, quella che mi guiderà”, ricorda Billy che inventò il suo capolavoro negli ultimi 75 metri infilzando per quattro decimi Gammoudi e per un secondo abbondante Clarke e chiudendo in 28”24”4, record olimpico, a meno di 9” dal mondiale di Ron.
“Non mi lasciarono fare il giro d’onore: sulla pista c’erano molti doppiati. Ma non ho mai rinunciato all’idea di togliermi quella gioia e vent’anni dopo sono tornato a Tokyo con Pat, mia moglie, e ho corso quei 400 supplementari e se c’era solo Pat ad applaudirmi, pazienza. Ero felice così”. Quel ritardato momento di gloria finì nel film – Running Brave – che venne girato da Bud Greenspan, il regista del film sui Giochi di Los Angeles. “Sulla mia vita e sulla mia vittoria ho anche scritto un libro ma non è che abbia avuto una gran fortuna. A farlo stampare mi aiutarono dei Cree che vivevano nell’Alberta, in Canada”, ride Billy che oggi ha 76 anni, vive in California, ha parecchi figli e una numerosa pattuglia di nipoti, ha attraversato la storia, il razzismo, l’intolleranza in nome di un ideale che pare il titolo di un bel racconto di Hemingway: il gran fiume dei due cuori. I suoi. Indiano e americano.
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