Brasiliani a cinque cerchi: Cruz

03 Agosto 2016

La storia del brasiliano campione olimpico degli 800 metri a Los Angeles 1984 e argento a Seul 1988

di Giorgio Cimbrico

Joaquim Carvalho Cruz era bello, simpatico, fortissimo, sincero, offriva una corsa musicale, e se non entrò nel ridottissimo club di campioni capaci di vincere due volte di seguito il titolo olimpico degli 800 (solo tre membri: Douglas Lowe, Mal Whitfield e Peter Snell) è perchè al secondo assalto trovò sulla sua strada un kenyano passato alla storia come simbolo di suprema eleganza: Paul Ereng, il prodigio dei Turkana, la tribù che vive in un paesaggio lunare, attorno a un lago in lenta e perenne ebollizione. In entrambe le finali corse da Cruz, Los Angeles ’84 e Seul ’88, trovò posto, quinto e settimo, il lucano Donato Sabia, un campione dell’atletica azzurra di cui non si parla mai abbastanza, il secondo dopo Marcello Fiasconaro a scendere sotto l’1’44”.

La famiglia di Cruz veniva dal Nordest, poverissima terra di banditi, rivoluzionari e santoni, e aveva scelto come nuova destinazione di possibile speranza il territorio federale attorno a Brasilia. Unico maschio di una nidiata di sei figli, Joaquim giocava a basket ma il tecnico Luiz de Oliveira aveva qualcos’altro in serbo per lui. I risultati furono immediati e stordenti: a 18 anni, nell’81, il suo 1’44”3 gli assegnò il record mondiale junior. Dopo quel risultato iniziò un soggiorno negli Stati Uniti (prima nello Utah, poi a Eugene, Oregon) che dura tuttora.

Ai Giochi di Los Angeles Sebastian Coe meditava di riprendersi quel che gli era stato tolto (da Steve Ovett) quattro anni prima a Mosca e di diventar campione nella distanza che riteneva molto sua, ma sin dalle prime discese in campo realizzò che Cruz era in una condizione tirata a lucido: la semifinale vinta dal brasiliano in 1’43”82 ne fu una dimostrazione palese e preoccupante. Lo scontro decisivo non regalò momenti di alta tensione: Cruz saltò Edwin Koech e non fu costretto a preoccuparsi seriamente del tentativo di ritorno di Coe e dell’americano Earl Jones. Lontano, il campione uscente Steve Ovett stava per stramazzare al suolo. Il record olimpico portato a 1’43”00 andava di pari passo con una vittoria che così netta (intorno ai quattro metri di margine) non si vedeva dal 1928. Era il terzo oro brasiliano dopo l’accoppiata ‘52-’56 di Adhemar Ferreira da Silva.

La formidabile forma convinse Joaquim a dar l’assalto al record mondale di Coe: il tentativo ebbe luogo sulla pista di Colonia (il meeting portava lo stesso nome di quello zurighese, Weltklasse) e produsse tempi che, dopo trent’anni abbondanti, collocano ancora Cruz (1’41”77, a quattro centesimi dal record fiorentino di Seb) e Sammy Koskei (1’42”28) al quinto e al settimo tra i migliori specialisti di tutti i tempi. Sulla pista renana si trovava a meraviglia e un anno dopo firmò in 1’42”54 il suo secondo tempo di sempre.

I giorni di Seul vennero aperti da una gaffe: “Me le ricordavo diverse”, disse Joaquim di Florence Griffith e di Jackie Joyner. In realtà disse qualcosa di più… impegnativo sul patrimonio muscolare conquistato dalle due cognate. L’uomo da tenere d‘occhio era il proteiforme marocchino Said Aouita, reduce da un’interminabile striscia vincente (gli inglesi direbbero full house) nelle distanze che vanno dagli 800 ai 10000. Jose Luiz Barbosa detto Zequinha, originario del Mato Grosso, bronzo mondiale un anno prima a Roma, si mise a disposizione per stroncare Said con un passaggio alla campana che lasciasse il segno. 49”64. Ma a quel punto i giochi non erano per nulla fatti: Nixon Kiprotich prese la testa e venne saltato da Cruz, a sua volta attaccato all’ingresso del rettilineo finale da Peter Elliott (conosciuto come il carpentiere di Roterham, Yorkshire, e rimasto l’unica speranza britannica dopo l’inopinata eliminazione di Steve Cram) che si trascinava appresso Aouita. Joaquim non parve essere impressionato da quell’arrembare e mantenne la testa. Fu a quel punto che dalle retrovie prese sembianze la corsa a ginocchia alte, altissime, di Paul Ereng che, campione Ncaa, aveva conquistato la selezione ai trials kenyani per il rotto della cuffia e non aveva trovato posto tra i favoriti. Irresistibile, saltò tutti, anche Cruz e vinse in 1’43”45 lasciando a due metri chi andò così dannatamente vicino al bis. A trent’anni dalle sue magnifiche imprese, Joaquim è tornato in pista qualche mese fa ai Panamericani di Toronto, per trasformarsi negli occhi di Marcela Mosquera Schmidt.

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La vittoria olimpica di Joaquim Cruz a Los Angeles 1984


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