Erica Alfridi e il capolavoro di Torino

02 Maggio 2016

L'apoteosi della veronese a Torino 2002, quando costrinse alla resa Olimpiada Ivanova e salì sul tetto del mondo.

Giorgio Cimbrico

Data importante, il 12 ottobre. Il 12 ottobre 2002 Erica Alfridi fece una grande scoperta: scoprì di essere fortissima. E concesse il suo canto del cigno a Torino, non lontano dal Regio, sull’asfalto e sul lastricato di via Roma e di piazza San Carlo. Aveva 34 anni e mezzo e sapeva che altre occasioni non le sarebbero state offerte. Carpe diem, diceva l’antico poeta e ripeteva il professor Keating, quello dell’Attimo fuggente. Erica lo colse e trascinò in un entusiasmo tale mamma sua da farla rovinare a terra sulla linea del traguardo: quell’abbraccio concitato fu l’unica cosa che quel giorno non riuscì alla perfezione.

In un secolo abbondante di atletica moderna e contemporanea quella che è stato facile etichettare Italia della fatica ha saputo mettere in campo una divisione di marciatori e un reggimento di marciatrici che hanno messo mani e soprattutto piedi su titoli olimpici, mondiali, europei, ma solo uno aveva passato il traguardo in testa in una gara di Coppa del Mondo o Campionato del mondo a squadre o ancora, come amano dire i vecchi della confraternita, in una competizione del Trofeo Lugano.

Proprio a Lugano, nel 1961, Abdon Pamich aveva lasciato a 5’ Don Thompson, il britannico medaglia d’oro a Roma nel giorno in cui il duro fiumano, terzo, si convinse sino in fondo che quel titolo doveva essere suo.

Dopo 41 anni di attesa (poteva essere più breve se Maurizio Damilano non avesse ceduto per un piccolo secondo a José Marinnell’85, nel vento teso dell’isola di Man), è la volta di Erica e le circostanze di quella vittoria sono talmente perfette, esemplari, da obbligare a un viaggio nel passato, andando a ripassare il filmato di quel finale e trovandolo appassionate come una coinvolgente diretta. 

All’ultimo giro di quel frenetico su e giù nel cuore di Torino, Erica arriva al fianco della sottile Natalia Fedoshkina e soprattutto di Olimpiada Ivanova, piccola, bionda, metronomica russa della repubblica di Chuvashia, campionessa mondiale ed europea in carica, un modello di stile con qualche ombra chimica nel passato (due anni di bando per positività allo stanozololo al Mondiale del 1997) e con qualche recriminazione che investirà il futuro: ad Atene, di lì a meno di due anni, la carneade greca Athanasia Tsoumeleka le sottrarrà l’unico titolo che manca e mancherà alla collezione, l‘oro olimpico.

Olimpiada ha l’hobby della cucina ma ancora non sa che verrà cucinata dalla veronese dal viso tondo e gli occhi azzurri che le hanno meritato il soprannome di Cameron Diaz della marcia. Sembra molto sicura di sé, la russa che viene dal grande bacino del Volga, e può contare su un “parziale” che la incoraggia: ha ricevuto una proposta di squalifica ma l’azzurra che si ostina a starle al fianco - o, al massimo, non più di mezzo passo dietro - ne ha incassate due in una fase d’avvio in cui le concitazioni avevano avuto la meglio sulla razionalità. Sandro Damilano, appostato nei portici e, rapido nei movimenti, pronto ad affacciarsi alle transenne, raccomanda calma e giudizio: poco più di un mese prima, a Monaco di Baviera, Erica era stata di bronzo, dietro a Olimpiada e a Yelena Nikolayeva: era la sua seconda medaglia europea dopo l’argento di Budapest ’98, dietro una cara amica che se n’è andata nello strazio di tutti , Annarita Sidoti. Quella doppietta venne festeggiata in un giardino ungherese con danze, musiche tzigane, brindisi.

Ancora due russe: una è cambiata, ma Olimpiada è sempre lì, con il suo passo mitragliato, implacabile. Quando la biondina ai 500 metri finali aumenta il ritmo, la fine sembra molto nota ma è in quel momento che Erica cambia traiettoria, aggira da dietro Olimpiada, la affianca, la salta, la costringe ad abbassare lo sguardo in quella che è una resa, una rivincita, un giorno memorabile.

LA MARCIA A ROMA, i capitoli: 12 - 3

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Erica Alfridi (foto FIDAL)


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