I 25 anni di Daniele Greco
01 Marzo 2014di Giorgio Cimbrico
“Venticinque anni: fanno un quarto di secolo. E un’età che fa riflettere”, diceva Zucchero Kandinski, alias Marylin Monroe in “A qualcuno piace caldo”. Venticinque anni, oggi, anche per Daniele: “A qualcuno piace Greco”. Un giochetto di parole, un tweet oltre i caratteri permessi, per tenerlo allegro: ne ha bisogno. E’ il via alla rubrica “nuova serie”, al progetto sui muri, le barriere che possono esser di varia altezza, di diverso spessore, investire in pieno anche i traguardi dell’esistenza. In questo senso il 2014 è piuttosto generoso ma non anticipiamo nulla per non guastare la sorpresa.
Ritorno al tema Greco, un Daniele finito nella fossa dei leoni degli infortuni che, come fulmini periodici, vanno a colpire sempre la stessa quercia. O, considerata la sua pura razza apula, lo stesso ulivo. Capita solo ai purosangue di esser fragili, interviene il visitatore segreto, l’interlocutore che finisce per dire spesso cose ovvie. Può anche esser vero, ma può non esser consolante. A noi pare di essere ancora seduti sulla panchina del parco Lenin, tra passeri e storni che becchettano, con Daniele al fianco che ha spazzato via la disperazione e ogni tanto si tasta la coscia smagliata e ha ancora l’occhio lucido per le lacrime che ha versato per l’occasione volata via senza un rimbalzo, per il senso di impotenza, per il fatto di esser lì, a parlare di un ko, non di una finale affacciata sul futuro vicino, non di avversari da valutare uno per uno. In quei momenti si sa come va a finire: prende il sopravvento il tentativo di scrivere un trattato di ars consolatoria, all’insegna del “sei giovane, hai tempo, la sorte non sarà sempre così maligna”. Parole, parole, parole, diceva Amleto, principe di Danimarca, condimenti e contorni per drammi grandi e piccoli che non possono esser spazzati via. Nella testa, in quei momenti tristi, anche quella vecchia canzone di Bob Dylan su Rubin Carter detto Hurricane, “quello che doveva diventare campione del mondo”.
E così il domani di Daniele Greco, seduto tra sole e ombra sulla panchina moscovita, erano i Mondiali di Sopot, sobborgo di Danzica, nel tentativo di allargare i confini dall’Europa indoor al mondo al coperto, e anche loro sono volati via dopo un atterraggio (nel lungo) che pareva non aver lasciato ombre o tracce che, subdole, sono apparse il giorno dopo. E così un’altra resa, un altro rinvio, un’altra attesa, un altro turbinar di dubbi che pare il volo dei corvi di Van Gogh che Raimondo Orsini dovrà cacciar via. Consolarsi, provarci. Teddy Tamgho ha avuto infortuni devastanti: è sparito, ha perso un Mondiale (Daegu) e un’Olimpiade (Londra), è tornato, prima di arrendersi a un altro cedimento strutturale è riuscito ad entrare nel poco frequentato e molto esclusivo club di chi ha passato un check point che un tempo assomigliava a un pianeta proibito, a un passaggio a nordovest che venne trovato e forzato da Jonathan Edwards in un giorno dal clima perfetto come il succedersi di quei balzi radenti.
Il triplo può essere una dimensione di spietatezza: chiedere informazioni a Fabrizio Donato da vent’anni a misurarsi con qualcosa che pare magnificamente aereo e spesso si trasforma in tre passi in un delirio di durezze. Vengono in mente le fasciature che Beppe Gentile portava attorno alle cosce, alla sua smorfia di dolore dopo l’ultimo assalto, quando il suo record del mondo era stato spazzato da Saneyev e da Prudencio. Il dolore – e per citare ancora Amleto, gli strali della sorte - è una costante per chi sceglie l’impervio di un cocktail in cui confluiscono velocità, forza, equilibrio. E ora, oggi, giunto al muro dei 25 anni, Greco ha sempre un muro che lo attende. E non vogliamo parlare di quando cadrà.
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File allegati:
- La SCHEDA di DANIELE GRECO
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