I 70 anni di Franco Arese
13 Aprile 2014di Giorgio Cimbrico
“Capitò la mia prima volta in Sudafrica, quando affioravano timidi segni di luce nel buio dell’apartheid: record italiano dei 10000 a Città del Capo. Lo strappai a Franco”, racconta Franco Fava, un magazzino dei mondi che una volta o l’altra si deciderà a mettere nero su bianco un suo personale ”confesso che ho vissuto”. O meglio un “confesso che ho viaggiato” in ogni angolo del mondo correndo, scrivendo, fotografando, raccogliendo dati, memorie, immagini, nomi, situazioni. Il record dei 10000 di cui Franco si appropriò il 29 marzo 1975 a Città del Capo, in 28’16”4, apparteneva a chi aveva lo stesso nome di battesimo, Franco Arese, che l’aveva catturato in una sua rapsodica incursione al meeting Iskra del ’71 a Varsavia, scrostando via 37” al limite di Giuseppe Ardizzone. In scala italiana, più o meno quel che fece Ron Clarke con il record mondiale.
Solo che Franco non era un mezzofondista da lunghe distanze. E così la domanda da rivolgersi nel suo 70° compleanno che arriva il 13 aprile è: cos’era Franco Arese da Centallo? Accontentando tutti coloro che oggi amano e privilegiano, anche con modalità un po’ cretine, le parole inglesi, Franco era un all arounder che svecchiò tutte le distanze, dagli 800 ai 10000 e che, unico nella storia della nostra atletica, divenne maestro di cappella e primo esecutore di quello che Marcel Hansenne, con slancio poetico e musicale, chiamò l’organo dell’atletica: le canne dello strumento sono le distanze che vengono corse nel ritmo del record, nella concitazione della lotta serrata.
Non ne trascurò una: 800, 1000, 1500, miglio, 2000, 3000, 5000, 10000, con la cura del collezionista, con la passione dell’esploratore. 1’46”6, 2’16”9, 3’36”3, 3’56”7, 5’03”4, 7’51”2, 13’40”, 28’27”: i numeri, in questo caso, sono tutto meno che aridi.
Raccontano, invitano a riflettere che furono ottenuti nell’evo lontano di quarant’anni fa.
Alcuni di questi record ebbero vita breve (quattro mesi i 5000), altri lunga o lunghissima (dieci anni i 1500 e il miglio, addirittura ventidue anni i 1000) rivelando doti proteiformi che vennero esaltate e levigate da Tino Bianco, per tutti Blanche, che non sembrava prendere sul serio nulla e prese sul serio l’avventura che finì per vivere al fianco di questo giovanotto alto e sottile (magro e ieratico come certi crocefissi degli albori dell’arte europea, ci è capitato di scrivere negli anni, prima che Franco aggiungesse chili a quell’essenzialità da statua di Giamometti), che veniva dalla campana cuneese, quella che viene chiamata Provincia Granda e che una generazione dopo avrebbe offerto la propensione alla fatica e lo stile di Maurizio Damilano e la saga di un’intera famiglia.
Alcuni episodi sono diventati solidi punti di riferimento della storia azzurra, a cominciare dalla sua vittoria nei 1500 di Coppa Europa a Sarajevo 1970, quando l’Italia per la prima volta conquistò l’accesso alla finale. Erano tempi diversi e lontani: Sarajevo aveva ancora l’aspetto, l’essenza, il fascino della città multiculturale, sospesa tra Occidente e Oriente, il martirio e lo strario erano ancora lontani, e la Coppa Europa occupava i nostri entusiasmi, le nostre aspettative, oltre ad occupare per intero i pomeriggi televisivi del fine settimana su uno dei due canali bianco e nero di cui, in quel tempo semplice e felice, disponevamo. Franco e Blanche iniziarono a battere strade che prima di loro nessuno aveva percorso: sentieri scandinavi che li portano nella foresta di Otaniemi. Estati fresche di allenamenti che riescono facili, di discese in pista agevoli, di sistemazioni spartane, di serate allegre di cui l’uno e l’altro avvertono ancor oggi la nostalgia. Il risultato è il 3’36”3 alla Notturna milanese del 1° luglio ’71, quando doma Marty Liquori proponendosi come una delle prime forze al mondo nel miglio metrico.
La prova del fuoco arriva un mese e mezzo dopo, nella Finlandia che ha imparato ad amare: tocca allo stadio di Helsinki, ricco di memorie, ospitare gli Europei. Franco è all’osso: gli occhi forano il volto, le braccia sembrano rami scheletrici, il pizzetto serve a completare l’aspetto ascetico di chi piomberà su traguardo con un volto trasognato: campione europeo davanti al finisseur polacco Henrik Skordikowski e ai britannici Brendan Foster e John Kirkbride, che diedero una mano a tener allegra l’andatura (alla fine, 3’38”4, veloce per una finale), per spuntare l’artiglio del corridore in maglia bianca. Chi c’era, assicura che Franco fosse molto commosso e che, soprattutto, lo fosse Blanche che giocava a fare il cinico. Non assistito dalla buona sorte ai Giochi (eliminato in semifinale sia a Messico ’68 che a Monaco di Baviera ’72), al vertice dell’Asics, presidente per due mandati della Fidal, Franco non ha smarrito un grado dell’alta temperatura con cui ha amato l’atletica.
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