Il maratoneta con le scarpette bianche
30 Settembre 2014di Giorgio Cimbrico
La maratona di Berlino del 9 agosto 1936 non aveva niente a che fare con la maratona di Berlino del nostro tempo, dei record che, come flutti, si susseguono ad ogni edizione: quella volta bastò un tempo sotto le 2h30’ per prendere il piatto che non era così ricco. Venne corsa su un percorso molto diverso, nel verde, per offrire refrigerio in quella calda giornata estiva e lo scenario si dimostrò perfetto per i giochi d’ombra e di luce architettati da Leni Riefenstahl che avrà anche lavorato per il Reich e sarà anche stata la Musa di Hitler, ma sapeva usare la macchina da presa. Una sintesi di dieci minuti può essere facilmente rinvenuta cercando su internet alla voce maratona olimpica 1936: chi non ha mai visto quelle immagini, ha l’occasione per farlo e, come si dice in questi casi, non se ne pentirà e capirà di non aver buttato il proprio tempo, più o meno prezioso.
Storie nelle storie, nel dedalo lungo 42 chilometri o 26 miglia. La più drammatica investe Juan Carlo Zabala, l’argentino che, quattro anni prima, a Los Angeles aveva approfittato dell’assenza di Paavo Nurmi, bloccato una settimana prima del via dai “lungimiranti” della Iaaf per i guadagni che il Silenzioso aveva rimediato durante i suoi tour americani. Zabala passò mesi a Berlino per preparare il bis, partì come un ossesso, prese anche due minuti di vantaggio, ma dopo il 25° chilometro la sua andatura si ridusse a uno scalpicciare: il ritiro era appostato dietro uno di quei frondosi ontani che fiancheggiavano il percorso. Ed è a questo punto che si fa largo l’altra storia, commovente e coinvolgente, quella di Son Kitei, che è bene chiamare con il suo vero nome Sohn Kee-chung, proprio come lui scrisse sulla foto che regalò a me a Franco Fava a Hiroshima, Coppa del Mondo di maratona, primavera dell’85.
Sohn non è stato solo un primatista mondiale (con 2h26’42”) e un campione olimpico, è stato un interprete, una vittima del XX secolo ed è stato anche un invitto perché non si arrese mai all’idea di aver dato agli invasori del suo paese quella vittoria. E già sul podio, quel giorno, abbassò la testa quando alzarono la bandiera giapponese e nascose il sole rosso che aveva stampato sulla maglia con un rametto di quercia che aveva raccolto durante la sua fatica.
Seung Yong Nam (in giapponese, Shoryu Nan), terzo, non aveva avuto la stessa intuizione e sul suo petto rosso sangue c’era il Sol Levante. Un giornale di Seul, pubblicando la foto, lo grattò via: il gesto costò il carcere duro agli otto giornalisti.
Della situazione della Corea, invasa dai giapponesi sin dal 1918, Sohn continuò a parlare, anche in quei giorni berlinesi, disegnando, accanto all’autografo, la silhouette della sua penisola, ma i giornalisti non erano molto interessati a questa storia. E un giorno, molti anni dopo, disse una cosa bellissima: “I giapponesi hanno cancellato la nostra musica, hanno imposto il silenzio ai nostri canti, ma non sono riusciti a fermare la mia corsa”. A giudicare da quel magnifico bianco e nero, la corsa di Sohn era leggera, provando a praticare un po’ di lirismo orientaleggiante, come uno stormire di frasche ma sapeva anche essere penetrante come una lama e rapida come il tuffo di uno sparviero: sufficiente rivedere quel rettilineo bruciato all’Olympiastadion come se Ernie Harper, minatore inglese, gli fosse alle costole e non a due minuti abbondanti.
La rinascita del suo paese lo colse ancora giovane, poco più che trentenne (era nato nel ’14), già incline a trasmettere ad altri il suo patrimonio. Allenò Sun Yun Dok che vinse a Boston nel ’47, e tre anni dopo, ancora nella maratona più antica dell’evo moderno, portò al successo anche Han Kee Yong. E quando non era lontano dagli 80 anni, viaggiò ancora una volta verso l’Europa, a Barcellona, per stare al fianco di Hwang Yong Cho, che, pura nemesi, domò in quel durissimo finale verso Montjuih il giapponese Koichi Morishita e mise al collo del vecchio maestro la medaglia d’oro. “Ora posso morire senza rimpianti”.
Il dolore provato per quella giornata finì per diventare una calamita per molti onori: toccò a Sohn sventolare la bandiera coreana nella sfilata del ’48 e, quarant’anni dopo, portare la torcia nello stadio olimpici di Seul in un boato commosso. Toccò al suo nome coreano finire sul monumento che in California hanno dedicato agli eroi della maratona. Sohn Kee-chung, l’uomo con le scarpette bianche, nato cent’anni fa, se n’è andato nel 2002.
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