L'epoca della Coppa del Mondo

12 Settembre 2014

Ricordi delle dieci edizioni (dal 1977 al 2006) dell'evento che oggi è diventato la Continental Cup

di Giorgio Cimbrico

La Coppa del Mondo ora si chiama Continental Cup. Secondo le codificazioni geografiche i continenti sono cinque (o sei, considerando per due l’America dall’Artico all’Antartico), ma la nuova formula ne prevede quattro, accorpando Asia e Oceania e raddoppiando il numero degli atleti-gara. Una riforma piuttosto radicale ma che almeno, rispetto alla cosiddetta Coppa Europa nuovo formato, non costringe a correre due serie nello sprint breve o prolungato e nelle staffette.

Premessa d’obbligo per inquadrare quel che sta per avvenire nel fine settimana al Grande Stade di Marrakesh. Per tutto quello che sa alle spalle, non resta che afferrare il gomitolo dei ricordi e provare a sbrogliarlo, imbattendosi nel bambino e nella bambina che correvano sorridenti, le mascotte di Dusseldorf ’77, nell’omino un po’ sghembo di Roma ’81, nel canguro di Canberra ’85. La memoria, spesso, saltella tra i particolari, è eccitata da piccole, insignificanti immagini.

Erano altri tempi, i tempi della Ddr che di coppe tra uomini e donne a Potsdam ne riportò cinque, più di ogni altro paese o rappresentativa all stars, e anche i tempi in cui la convocazione di uno o più azzurri nella squadra europea era una notizia che poteva risvegliare una certa attenzione, ricoprire la sua brava importanza su quelli che ancora non venivano etichettati come media. Ricordo che a Canberra c’erano Stefano Mei, che finì secondo nei 5000 dopo una furibonda battaglia contro Doug Padilla (cominciava a avere spunto, lo spezzino), Sandrone Andrei che non vedeva l’ora di tornare a casa e fu terzo dietro uno Ulf Timmermann da 22 metri e i moschettieri della 4x100.

Tanto vale esaurire qui il bilancio italiano che non è rigogliosissimo: una vittoria (di Totò Antibo, nell’89, nei 10000 che poi sono spariti dal programma), un millimetrico secondo posto di Pietro Mennea, a pari tempo (20”17) con Clancy Edwards nell’edizione inaugurale e, rimanendo nelle piazze d‘onore, quelli di Mauro Zuliani nel ’79 e di Sara Simeoni nel ’77 e nel ’79. Tutto questo in maglia bianca e stelle europee. Con la maglia azzurra, Mariano Scartezzini e Gabriella Dorio nell’81.

Canberra invita a riesumare pagine spesse, impegnative, piacevoli, a cominciare da quel viaggio interminabile che si concluse davanti a uno stadio immerso nel bush, all’imbrunire circondato da gruppi di bipedi saltellanti. Furono i giorni del 47”60 inattaccabile di Marita Koch, del record della 4x100 delle Ddr che tenne duro per 27 anni, della gran fiondata di Uwe Hohen – lui, l’uomo dei 104,80 -  oltre i 97 metri, del magnifico balzo a 7,27 della 21enne Heike Drechler, della volata di un massiccio giovanotto con gli occhi impallinati che aveva appena vinto i Giochi della Buona Volontà: Ben Johnson.

Quattro anni prima, a Roma, Primo Nebiolo aveva celebrato la sua ascesa al soglio dell’atletica tracciando il solco della nona corsia in un Olimpico non ancora inscatolato nel progetto di Italia ’90 e aveva avuto in sorte tre giorni di pubblico numeroso e risultati di cui ancora si trova traccia nella tabella dei record dei record della manifestazione: 47”37 di Edwin Moses (di questi tempi, frontiera proibita) e 27’38”43 di Werner Schildhauer che in quell’occasione lascò alle spalle il calligrafico Venanzio Ortis senza sapere che avrebbe dovuto scontrarsi con un altro italiano, meno elegante, ma che gli avrebbe riservato amarissime sorprese.

Nebiolo, inventore della Coppa nei lontani giorni della sua ascesa, mostrò un’espressione assai meno compiaciuta diciassette anni dopo, a Johannesburg, quando il piccolo stadio con pista accanto al gigantesco Ellis Park rimase desolatamente vuoto per due giorni e ebbe qualche chiazza di pubblico nel terzo e ultimo, dopo che un certo numero di figuranti era stato pescato a Soweto. Pioggia  freddo sul’altopiano, nei pressi della più grande vena d’oro del mondo, ma le condizioni non impedirono a Marion Jones, ancora lontana dalla dannazione, di esprimersi a 10”65 e 21”62 e a Obadele Thompson di trovare il colpo d’ala giusto per finire sul traguardo  9”87. Di lì a qualche anno Il destino avrebbe fatto riunire il pio figlio del pastore di Barbados e la grande peccatrice che ha conosciuto anche la prigione.

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