L'insegnamento di Fulvio Villa



C’era davvero tanta gente, martedì scorso, due gennaio, al funerale di Fulvio Villa. Talmente tanta che la chiesa di Santa Maria Goretti, a Roma, seppure assai capiente, era letteralmente stipata. Centinaia di persone, la maggior parte delle quali unite tra loro, unite a Fulvio, dal filo sottile dell’atletica. Un legame che spesso pare esile (“che sarà mai, lo sport?”, senti dire in giro), e che invece, in occasioni come queste, scopri praticamente indissolubile. Un marchio. Tecnici, atleti di successo e non, ex atleti, dirigenti: tutti lì, in silenzio. Dolore, sorpresa (molti hanno saputo solo all’ultimo della malattia) per la scomparsa di un giovane uomo nel pieno della vita; per alcuni il parente, per altri l’amico, o l’allenatore, o il compagno di fatiche. Per tutti però figura emblematica, capace di fungere – non è la solita retorica di circostanza – da vero e proprio esempio, messo lì, sotto gli occhi, tutti i giorni: per il modo sempre pacato di porsi nei confronti degli altri, del lavoro, dell’atletica stessa, del filo già citato. La storia personale di Fulvio Villa è emblematica di come si possa trasformare l'impegno nello sport, nell’atletica, in qualcosa di più di una semplice manifestazione della propria passione; e per questo merita di essere sottolineata, ricordata anche a chi non lo conosceva. Siamo abituati ad applaudire chi taglia per primo il traguardo, o chi lancia o salta più degli altri. Ne esaltiamo l’eccezionalità, l’unicità del gesto. Finiamo però per considerare normali, quando invece non lo sono affatto (meglio: non lo sono più), la dedizione quotidiana, la voglia di coinvolgere, la capacità di ascoltare, di mettersi a disposizione dei più giovani. Fulvio in questo è stato un maestro, a giudizio di tutti. Lui semplicemente c’era, potevi contare sul suo impegno. Alla Farnesina, ai Marmi, talvolta all’Acqua Acetosa. Era lì. Il fatto poi che sia stato per anni il fiduciario tecnico del CR Lazio, che si sia inventato le carriere sportive di tanti (soprattutto, ma non solo, marciatori), che sia stato organizzatore, dirigente, insegnante, è secondario. Conta soprattutto l’aver lavorato, sodo, per gli altri. L’insegnamento che una vita spesa così è capace di impartire, vale, per utilizzare parametri a noi consoni, quanto una medaglia olimpica. Anzi, diciamolo: qualcosa in più. m.s.


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