Manyonga, nato nel 1991: ''Un destino?''

20 Marzo 2017

Il sudafricano, argento olimpico del lungo, è appena atterrato a 8,62, record continentale. Da otto anni nessuno aveva più saltato una misura del genere.

di Giorgio Cimbrico

“Sono sempre più convinto di poter arrivare al record del mondo, di diventare il primo uomo ad atterrare a nove metri. C’è qualcosa di speciale nelle mie gambe e credo sia venuto il momento in cui le luci debbano lasciare la pista e andare ad illuminare quel che capita sulle pedane”: dopo i fatti, le parole, quelle di Luvo Manyonga che all’8,46 di Bloemfontein dell’8 marzo, ha fatto seguire l’8,62 di Pretoria. La località del Free State è a 1395 metri dl altezza, la sede del Parlamento sudafricano è appena più in basso, 1339. Al primo assaggio ha avuto un nulla di vento a favore, 0,2; ai campionati del North Gauteng, una volta Transvaal, qualcosa di più sensibile, 1,2. Record personale migliorato di quattordici centimetri, record sudafricano e continentale di dodici. Era di Khotso Mokoena e risaliva al 2009, l’anno scandito dai grandi balzi di Sebastian Bayer, 8,71 indoor a Torino, e di Dwight Phillips, 8,74 a Eugene. Da allora nessuno si era spinto così lontano.

Manyonga ha una storia che merita di esser raccontata, lasciando la parola, prima di tutto, a chi gli ha dato una mano. “Se sei pronto a percorrere una strada, sarò al tuo fianco, gli ho detto, ma intanto sapevo che ci sarebbe voluta la saggezza di Salomone e la pazienza di Giobbe”: John McGrath, irlandese grande e grosso, ex-strongest man che piegava sbarre di acciaio e spezzava catene in giro per il mondo, ha preso sotto le sue robuste ali un tossicodipendente di Mbekweni, la township di Paarl, provincia del Capo. La strana coppia, roba da film di Danny Boyle, ha funzionato: Luvo è il vicecampione olimpico di salto in lungo, a un centimetro, dieci millimetri, dall’oro, strappato all’ultimo respiro da Jeff Henderson, con 8,38. Se Luvo avesse anticipato a Rio il volo di Bruxelles, 8,48, ora quel titolo sarebbe sudafricano, ma lui non ci ha fatto una malattia. Ora ha altri obiettivi.

“Sono nato nel ’91, l’anno del record del modo di Mike Powell: lo considero un segno del destino. Toccherà a me batterlo. Quel record mi sta chiamando e io sono affamato”: chi esce dal buio della notte, chi percorre i sentieri della redenzione, sente di avere dentro di sé la Forza. E’ il caso di Luvo, 26 anni, di razza xhosa come Nelson Mandela, cresciuto in una delle tante township dove miseria, violenza e droga miscelano un cocktail micidiale. Lui, come molti amici suoi, era un consumatore di cristalli di amfetamina: in Sudafrica lo chiamano tik. Nel 2012, diciotto mesi di squalifica: “L’unica cosa che riuscii a dire, era che lo facevo per vizio, non per migliorare le mie prestazioni”.

Né facile né semplice anche la vita di John che, nell’ordine, soffre di bullismo a scuola (“mi spegnevano le cicche addosso”), si ribella, diventa un esperto di arti marziali (tra i suoi guru, Do Joo Nim, maestro di Bruce Lee), diventa canottiere (“vogavo con tipi destinati a diventare avvocati, ingegneri”), finisce per occuparsi di sbarre e catene anche al luna park di Coney Island e dopo lungo girovagare, accetta un posto da spazzino a Waterford: uno spazzino alto 2,00 per 120 chili.

In Sudafrica John arriva per caso: una vacanza con una ragazza. Non torna indietro, mette su una palestra a Paarl ed è lì che sente parlare di Luvo che nel frattempo aveva vinto i Mondiali juniores 2010, era finito quinto ai Mondiali di Daegu e aveva messo assieme anche una discreta somma che avrebbe potuto far comodo visto che a casa si andava avanti solo con i guadagni di mamma Joyce, domestica. Invece, tutto buttato, alla svelta. Capita a chi finisce in quel giro. “Ho sentito parlare di Luvo, l’ho conosciuto, gli ho parlato chiaro e ho subito capito che non sarebbe stato facile”, racconta John che chiede un incontro con i dirigenti della South African Sport Confederation. “Darei volentieri una mano perché Manyonga si rimetta in piedi”, dico. E quelli: “Non ci pensi nemmeno, e in ogni caso è squalificato”. “Credo che da quelle parti non abbiano mai sentito un fuck you più forte”. Gli dà una mano il pastore (di anime) Eugene Maqwelen, che conosce bene la township, i meccanismi che la governano, la gente.

John sa allenare la forza, capisce di preparazione fisica, mastica qualcosa di dietetica ma di tecnica è a digiuno. “Non capivo niente neanche di scarpe: ne ho regalato un paio a Luvo ma non erano da salto in lungo. E lui ha saltato 8,10. Comunque, così non potevamo andare avanti”. E così entra in scena Mario Smith, che in realtà rientra, perché aveva allenato il giovanotto agli esordi. Smith muore due anni fa in un incidente stradale proprio mentre va ad allenare Manyonga: lo shock e il dolore sono devastanti. Ma McGrath non è un tipo che si arrende: riesce a far accettare il suo protetto all’High Performance Center di Pretoria che in realtà fa un grosso affare. E potrebbe farne uno anche più grosso: “Al fianco di John e di mia madre, ho ritrovato la speranza, sto saltando al 99% e mi sento già pronto per i Mondiali di Londra”. Ad agosto, l’ultima tappa della redenzione.

VIDEO | LUVO MANYONGA SALTA 8,62 E STABILISCE IL RECORD CONTINENTALE AFRICANO DEL LUNGO

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