Nel segno di Zahra
17 Febbraio 2017Zahra Bani si racconta nell’ambito dell'iniziativa “A Scuola con gli Azzurri” allo Stadio dei Marmi.
Un altro pomeriggio in compagnia dei campioni dell’atletica azzurra, l’iniziativa delle Scuole CR Lazio “A Scuola con gli Azzurri” continua a regalare emozioni ai giovani atleti romani. Stavolta l’ospite è stata Zahra Bani, presente lo scorso 15 febbraio tra i ragazzi della Scuola giovanile allo Stadio dei Marmi grazie all’invito formulato dai tecnici Claudia Tavelli e Lorenzo Minnozzi, raccolto con entusiasmo dalla giavellottista azzurra in forza alle Fiamme Azzurre, che gentilmente hanno messo a disposizione la loro portacolori.
Seconda prestazione italiana di sempre dopo Claudia Coslovich, una presenza all’Olimpiade di Pechino del 2008, 3 campionati del Mondo, 2 campionati Europei, 2 Giochi del Mediterraneo in cui si è aggiudicata 2 argenti, 14 titoli nazionali, Zahra Bani è un’atleta che sta lasciando un’impronta forte nella storia italiana del giavellotto. Di seguito l’intervista a cura di Lorenzo Minnozzi.
Come hai scoperto lo sport e come l’atletica?
Tramite la scuola iniziai a fare atletica. Una delle mie prime insegnanti fu Valeria Musso, allenatrice anche di Marco Fassinotti, grazie a lei scoprii quella parte dell’atletica più divertente; poi ai regionali incontrai Carlo Lievore, il mio ex allenatore che mi indirizzò sul lancio del giavellotto. Mi vide lì a lanciare la pallina e subito mi disse “Ah, sei portata…”. Cominciai così ad allenarmi con lui nonostante abitassi a 30 km da Torino: mi piaceva così tanto che la distanza non fu mai un problema. Poi ho giocato anche a pallavolo, ma ero troppo competitiva e, in quella occasione, capii che gli sport di squadra non facevano per me.
Hai la seconda prestazione italiana all-time e 14 titoli alle spalle, un palmares non indifferente. La piccola Zahra riteneva possibile tutto questo oppure immaginava una vita di tutt’altro genere?
Ti dirò, un po’ mi aspettavo di poterlo fare come lavoro, mi è sempre piaciuto praticare sport. Poi, quando ho raggiunto il quinto posto ai mondiali, ho realizzato di voler arrivare al sogno olimpico impegnandomi ancora di più. Io non mi ritengo un’atleta professionista al 100%, sgarro troppo tra cibo, uscite serali… ammetto che, in confronto ad altri atleti, purtroppo non sono per niente inquadrata!
Quali altre discipline hai avuto modo di provare in tanti anni di atletica? Ce n’è una che avresti voluto provare e nella quale non ti sei mai cimentata?
Ho iniziato facendo un po’ di tutto. Ricordo ancora che l’inverno del mio primo anno promessa ho addirittura fatto una campestre: Lievore voleva così. Gli altri miei tre fratelli corrono, di conseguenza mi ordinavano di andare con loro in gara. Ho partecipato perfino ad una gara di marcia! Dell’atletica l’unica cosa non mi piaceva assolutamente erano gli ostacoli. Una disciplina che mi ha sempre affascinato quanto il giavellotto è il salto in lungo.
Le caratteristiche base che deve avere un giavellottista quali sono?
La struttura fisica conta molto, inutile girarci intorno: la spalla deve essere molto elastica e sciolta, più sei alto meglio è, le leve lunghe aiutano sempre. Fondamentali sono l’esplosività e la velocità più che la forza; è questo che ci distingue da discoboli, pesisti e martellisti. Io per prima non sono affatto forte, però, nonostante tutto, ho raggiunto i 62 metri.
In cosa si distingue il giavellotto dalle altre discipline?
Il semplice fatto che ci sia una rincorsa in cui si corre a tutti gli effetti, può far capire quanta differenza ci sia tra il giavellotto e gli altri tipi di lancio. Inoltre, la struttura fisica del giavellottista è totalmente differente: per assurdo assomiglia più ad un triplista che ad un discobolo.
Descrivimi la sequenza di un lancio.
Dopo una fase ciclica di corsa che può essere più o meno lunga, il lanciatore “sfila” il giavellotto dietro la testa. Qui comincia la fase aciclica della rincorsa in cui l’atleta si occupa dei cosiddetti “passi speciali”, possiamo dire dei passi incrociati balzati. L’ultimo passo è il famoso “passo impulso” in cui il lanciatore fa un balzo più lungo, atterrando con entrambi i piedi insieme. Da lì, col braccio teso, lancia il più lontano possibile. Molto spesso la prima parte della rincorsa varia da atleta ad atleta, mentre l’ultima parte, quella di rilascio vero e proprio, è costante per tutti.
È un periodo non proprio glorioso per l’atletica italiana. Per quanto riguarda i lanci dove credi sia l’origine del problema?
Ne parliamo spesso con gli altri atleti più maturi: crediamo che la mancanza sia da parte dei tecnici. Quando, nell’ormai lontano 2009, Domenico Di Molfetta ha lasciato i campi, la struttura tecnica ha accusato il colpo. Lui era riuscito ad organizzare e integrare molto bene il settore lanci.
Accompagnava gli atleti in raduno anche quando non se la sentivano e, così facendo, è sempre riuscito a coinvolgere persone nuove: persino quando i tecnici non erano molto d’accordo a mandare i ragazzi, lui se li prendeva! Oggi vedo un egoismo da parte loro invalidante per i ragazzi, quando io da giovane avrei pagato oro per partecipare ai raduni nazionali. Ricordo le esperienze, condivise con la Coslovich e le altre lanciatrici, che hanno formato l’atleta che sono ora. Le vedevo come il modello da imitare, nonostante a volte appartenessero un’altra disciplina. Ascoltavo i loro racconti e mi convincevo che quella strada l’avrei percorsa anch’io. I ragazzi e tecnici di oggi, anche nella mia disciplina, non hanno più quest’idea di gruppo e non capiscono quanto invece sia importante per la crescita degli atleti.
Si parla molto di specializzazione precoce nei lanci. È una teoria applicabile anche al lancio del giavellotto?
La fortuna del giavellottista è che deve avere una preparazione atletica e tecnica talmente ampia che praticamente ogni esercizio può essere considerato specifico per il lancio. Purtroppo ora non molti capiscono che gli atleti devono necessariamente allenarsi nel modo più ampio e completo possibile. Sarà un’esagerazione ma non vedo più ragazzi di 18 anni che si mettono a fare campestri, con la scusa che si tratti di una gara lontana dalla propria disciplina. Vedo i risultati della mia passata preparazione ancora adesso: ho avuto 10 anni in cui mi sono espressa al meglio e, nonostante un’operazione alla spalla, riesco ancora a lanciare lontano. È un peccato che alcuni giavellottisti, così come altri lanciatori, saltatori o corridori, comincino fin da subito a concentrarsi su un’unica specialità.
I paesi del Nord Europa ottengono da sempre risultati migliori dei nostri. Cosa pensi abbiano in più di noi?
Strutture, mentalità e cultura completamente diverse.
C’è stato un momento critico nella tua carriera sportiva? Come ti sei ripresa da quel periodo?
Ho vacillato in seguito all’Olimpiade di Pechino 2008: dopo anni di sacrifici per raggiungere quell’obiettivo, non sono riuscita a piazzare neanche un lancio, chiudendo così la gara con tre nulli. Un dolore molto più forte è arrivato nel 2012 quando sono venuti a mancare, a distanza di poco tempo, sia mia madre che il mio allenatore storico e, a quel punto, ho sentito che l’atletica non mi rendeva più felice. È stato un anno duro, ma in molti mi sono stati accanto e hanno insistito al punto da convincermi a ricominciare ad essere felice con questo sport.
Quanto è importante avere un gruppo nella vita di un atleta?
Per me il gruppo è tutto: sono venuta ad allenarmi a Roma proprio per questo. Ci sono atleti che preferiscono allenarsi da soli, mentre io, senza i miei compagni, non troverei la giusta motivazione per alzarmi la mattina ed andare a lanciare. Anche quando non hai proprio voglia c’è sempre qualcuno pronto a spronarti a fare del tuo meglio, metro per metro.
Il momento più bello nella tua carriera sportiva?
Ce ne sono due: il primo è quando ho superato per la prima vola la barriera dei 60 metri, ricordo che da 59 m sono passata a 62, risultato per giunta ottenuto in casa, a Torino. Il secondo momento magico risale al Mondiale di Helsinki quando, dopo aver conquistato il quinto posto, ho assistito ad un record europeo e al record del mondo di Barbora Spotakova (ndr 72,28 m), nonché probabilmente il lancio più bello che abbia mai visto dal vivo.
Ora facciamo un botta e risposta.
Scuola di giavellotto: Finlandia o Norvegia? Finlandia
E tra Finlandia e Germania? Germania
Tiro o lancio del giavellotto? Tiro
Più mente o più corpo? Mente 100%
Nemeth o Nordic? Nordic
È più vicina al lancio del giavellotto il salto con l’asta o il salto in alto? Alto
Ed è più bello il salto in alto o il lancio del giavellotto? Giavellotto
Dopo il lancio…urlo o silenzio? Urlo sempre
Descrivi il lancio del giavellotto in una parola. Spettacolo, e lo dicono tutti eh!
Chi senti di dover ringraziare più di tutti nella tua carriera sportiva?
In primis Carlo Lievore. Mi ha fatto crescere prima come persona e poi come atleta.
Che ricordi hai legati al nostro Stadio dei Marmi?
Ad essere onesta non è che mi abbia sempre portato bene. Ho fatto 4-5 Golden Gala e non sono andati benissimo; invece ricordo la felicità di aver raggiunto il secondo posto a 18 anni ai campionati italiani assoluti svoltisi all’Olimpico. Sicuramente, però, è uno degli stadi più belli al mondo e in cui io sia mai stata.
Ringraziamo Zahra Bani per l’intervista e, soprattutto, per la disponibilità e la simpatia dimostrate con i bambini e i ragazzi della Scuola dei Marmi. Le auguriamo il meglio per gli impegni futuri e le facciamo un grande in bocca al lupo per i campionati italiani invernali del 18 e 19 febbraio. Grazie Zahra!
A cura di Lorenzo Minnozzi
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