Pietro Mennea, una corsa nei ricordi
21 Marzo 2017Il 21 marzo del 2013 l'addio alla Freccia del Sud, l'azzurro più veloce di sempre, l'olimpionico e primatista mondiale dei 200 metri
di Giorgio Cimbrico
Camminando, incespicando sui marciapiedi sconnessi, triturati dalle radici dei pini, attorno ai Marmi una sera di marzo, in un’aria fredda che tiene ancora lontana la primavera, in un silenzio spezzato solo in lontananza dal rombare sul Lungotevere, una voce dalle vocali pugliesi che nessun corso di dizione potrà mai eliminare, correggere: “Che ci fai qui?”. “Lasciato a terra da un taxi mai arrivato. Cerco un bus, qualcosa”. “Non posso esserti utile”. “Invece sì. Possiamo fare due chiacchiere”.
E così abbiamo chiacchierato dei vecchi tempi e ci è venuto in mente del nostro primo incontro, al Palasport di Genova, inizio anni Settanta, della sua sfida con Vasili Papageorgopoulos, dai capelli così neri da esser corvini, robusto, rapido allo sparo. “Mennea all’esame di greco”, era il titolo di Tuttosport, piazzato sopra una mia giovanile corrispondenza. Pietro superò l’esame, naturalmente. “Ma il tempo non fu granché”. “Posso sbagliarmi, ma sui 6.70, forse qualcosa di più”. “Mai stato un grande partente”.
Lo vidi, ma da lontano, qualche mese dopo, agli Europei in un Olimpico vecchio formato e pieno di pubblico, quando Valery Borzov, prima del via, li passò tutti in rassegna e c’è chi faceva finta di niente e chi deglutiva. Valery era un grande giocatore di poker: non bluffava in maniera vergognosa, in mano qualcosa aveva, una doppia coppia. Per di più, in semifinale aveva esibito quella partenza su tre appoggi che sembrava preludere a chissà quale artifizio tecnico e che fu solo un gesto per spargere un po’ di panico addosso a chi voleva sfidare il doppio campione olimpico. E così Pietro fu costretto a inseguire, non solo Valery: gli era scappato anche Klaus Dieter Bieler, un tedesco di grande stazza, bellissimo. Un attore, non un velocista. Pietro lo abbrancò sul traguardo, Valery lo aveva già passato. E così, marciando verso i 200 orfani dell’ucraino - che sarebbe meglio chiamare galiziano -, i nervi erano a fior di pelle e non ho mai capito il perché. “C’era Ommer”. “Ma dai, Ommer, un piccolotto che non valeva la tua ombra”. “Sempre stato così: apprensivo. La calma non ha mai fatto per me. E questa è tutta la verità e nient’altro che la verità”. “Comunque, per chi non ricordasse, hai vinto con quasi due decimi una finale senza palpiti. Tutto era scritto”.
Ricordi vecchi quarant’anni abbondanti. Non siamo rimasti in molti a poter rinvangare quei primi giorni di tuono. “Ma di me si parla ancora?”. “Hai lasciato troppi segni perché la sabbia del tempo ricopra tutto”. “Sei rassicurante”. “No, sono sincero”. Questi segni fanno parte della vita di chi ha speso molti anni a sentire “ai vostri posti”, a sobbalzare a ogni sparo, ad annotare parole e numeri come fossero note da scrivere su un foglio di musica, a provar gioia rilevando che quel 19.72 è sceso ma assicura ancora un posto tra i primi dieci, e da quel momento magico e messicano sono passati quasi quarant’anni. “E Carlo diceva che se fossi tornato un anno dopo, alla fine di quell’estate in cui, dopo Mosca, avevi creato una terribile bellezza, avresti fatto meglio: 19.60, meno, chissà”. “Avrei reso difficile la vita difficile a Michael Johnson”. La voce si fa allegra, disinvolta.
“Non devi avere dubbi, interrogativi: di te si parla ancora. Ne parlano anche quelli che non ti hanno visto perché non erano nati. Oggi è di moda il termine “icona” e tu lo sei. Hai presente la foto di quando hai appena battuto Wells e ti apri in un sorriso che non è selvaggio, ma solo celestiale? Ecco, quella è diventata il simbolo perché è la summa di chi eri, uno che non si arrendeva. Tra noi, vecchi cavalieri del sogno, è di moda un gioco innocente. Rivediamo il filmato e diciamo: ma questa volta ce la farà? E tu ce la fai sempre”. “Ero proprio indietro, eh?”. “Eri molto indietro”.
“Quando sento queste cose, penso che tutto sommato qualcosa ho fatto”. “E’ proprio così. Hai lasciato qualcosa di te, a tutti. Ricordo che alla vigilia del tuo record del mondo indoor, mio figlio non aveva nemmeno tre anni e quando tu telefonavi per dirmi che avevi la febbre e un sacco di dubbi, lui diceva: papà parla con Mennea, quello che corre più veloce del vento. E’ stato mio figlio, trent’anni dopo, a dirmi che non c’eri più. E io per un po’ ho annaspato. Mi veniva a mancare qualcosa che mi aveva accompagnato. Ma stasera ho capito che non te ne sei andato del tutto”. “E’ proprio così ed è stato piacevole”. “Chissà quando ci ritroveremo ancora…”. Silenzio: la voce si è dileguata nel buio. Tornerà.
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