I record dei record
07 Maggio 2014di Giorgio Cimbrico
Anche dopo la scadenza giubilare dei sessant’anni passati dal record storico e umanissimo di sir Roger Bannister, potrà capitare – come è già capitato - che qualche dottor Stranamore parta "lancia in resta" e su pubblicazioni scientifiche di indubbia serietà azzardi i record del mondo per il 2050 o per il 2100, quando i 100 verranno corsi in 7”60, si salteranno 10 metri in lungo (in realtà li toccavano già gli antichi greci, aiutandosi in volo con dei pesi equilibratori), il miglio verrà bruciato a palmi in 3'20” e la maratona in un centinaio di minuti. Non vengono fornite precise indicazioni sull’aspetto che avranno quegli uomini e quelle donne. Palmati? Alati? Un cocktail di cybertecnologia e di tessuto umano? Nuovi centauri, nuove Atalante? Giornali, tv e new media non mancano di gettarsi a pesce su questi fantastici scenari.
Lo stato delle cose, ovviamente, è molto diverso. L’anno scorso, stagione di Mondiali, di record ne è stato registrato uno solo, e non a Mosca, ma nella scorrevole maratona di Berlino, quando Wilson Kipsang ha chiuso i 42 chilometri e spiccioli in 2h03’23”.
Quest’anno, fuori stagione e sotto un tetto ucraino, è arrivata l’ascensione di Renaud Lavillenie a 6,16 che ha cancellato dal vertice delle liste e dalla tabella dei record – non dal ricordo, naturalmente – le imprese e il trentennio di dominio statistico impresso da Sergey Bubka.
Proviamo a guardarci negli occhi: i record mondiali, oggi, sono una faccenda dannatamene impervia. Perché? Perché, bene o male, l’atletica si è data una ripulita e perché in un periodo storico non lontano i limiti annunciati dagli Stranamore, specie tra le donne, erano già stati toccati, sorpassati. I viaggi nel tempo dovrebbero svolgersi alla rovescia, portarci a vent’anni fa, quando Inessa Kravtes saltava 15,50, o a trent’anni fa, quando Marita Koch correva in 47”60.
Oggi chi segue l’atletica sa che con 15 metri e con 49” si mettono le mani sulle più preziose gemme della corona.
Dal 2008 l’atletica vive sulle iperboli cronometriche di Usain Bolt che l’anno dopo ha raggiunto l’apogeo in un luogo di fortissimo impatto storico, l’Olympiastadion di Berlino (Bolt aveva 23 anni, Owens anche quando calarono lo sport nella dimensione letteraria del Meraviglioso) e ha avuto in sorte i capitoli scanditi con eleganza da David Rudisha, impegnato in un’operazione 100 secondi che malanni muscolari hanno interrotto. L’uno e l’altro sono da rubricare nella categoria dei Lampi e dei Prodigi, roba da Olimpo che, è noto, era frequentato da un club piuttosto ristretto ed esclusivo.
La conclusione può esser diametralmente opposta alle proiezioni elucubrate dagli Stranamore che riescono a conquistare sempre il loro bravo spazio: l’atletica marcia verso il futuro con la sicurezza che le vecchie mattanze (ricordate il Reparto Rosso Femminile di Ma Yuren?) appartengono al passato, che certi furibondi inseguimenti saranno sempre più rari - e con essi una certa filosofia della competizione -, che la dimensione del faccia a faccia, della sfida avrà la meglio. Perché, con buona pace degli scienziati e dei loro corifei, i limiti umani sono già tra noi e al massimo non resterà che limarli, ma con mano leggera.
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Il primatista mondiale di maratona Wilson Kipsang (foto Colombo/FIDAL)
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