Rio 2016: maratona per l'oro 1000

11 Agosto 2016

Il 21 agosto i 42,195 km della prova maschile assegneranno il millesimo titolo della storia dell'atletica olimpica

di Giorgio Cimbrico

Sei anni fa la maratona ha festeggiato il suo 2500° compleanno (la battaglia tra greci e persiani risale al 490 a. C.) e ora sta correndo verso un altro caposaldo storico: chi vincerà a Rio il 21 agosto conquisterà la medaglia d’oro numero 1000 nell’atletica olimpica. I conti li hanno fatti gli statistici dell’Atfs coordinati da Mark Butler nel consueto libro che vede la luce ad ogni evento globale.

I conti sono fatti: dal 1896, 950 titoli assegnati che diventano 951 per il doppio oro assegnato a Londra 1908 nel salto con l’asta (3,71 per gli americani Edward Cooke e Alfred Gilbert, quest’ultimo famoso soprattutto per esser stato l’inventore del Meccano) e che salgono a 953 per le due medaglie assegnate postume al povero Jim Thorpe, vincitore del pentathlon e del decathlon a Stoccolma 1912 e squalificato per aver guadagnato un pugno di dollari giocando a football e baseball. A Rio le gare in programma sono 47 e l’ultima, il 21 agosto, è la maratona: 953+47 uguale 1000.

Il pronostico è dalla parte di Eliud Kipchoge che, dopo aver domato tredici anni fa Hicham El Guerrouj e Kenenisa Bekele per la corona mondiale dei 5000, da quando è diventato maratoneta non ha sbagliato un colpo e in aprile a Londra, chiudendo in 2h03’05” si è portato a un soffio, otto secondi, dal record mondiale. Ma la gara simbolo dei Giochi non è mai una strada diritta. Meglio usare un’altra allegoria: un dramma con il più incredibile e imprevedibile dei cast.

Prendiamo Michel Theato che vinse nel 1900 in una Parigi che bolliva a 39 gradi e non sapeva di esser diventato il successore di Louis: lo capì dodici anni dopo, poco prima dei Giochi di Stoccolma, sfogliando un giornale e scorrendo un elenco di vincitori: c’era anche il suo nome. E prendiamo Soe Kee-chung che come Kitei-son a Berlino ’36 regalò al Giappone una medaglia d’oro che mai avrebbe voluto donare: la sua Corea era sotto quel tallone ed era un tallone d’acciaio. E prendiamo anche Boughera el Ouafi, il vincitore di Amsterdam ’28, il primo africano anche se sulla maglia aveva cucito il galletto di Francia: lui, algerino, ex-soldato dell’Armata coloniale nella Grande Guerra, operaio, campione olimpico, disoccupato, riscoperto e oggetto di una sottoscrizione quando un altro nordafricano (Alain Mimoun) vinse per Marianna a Melbourne ’56 aspettando sul traguardo un vecchio amico stroncato dal sole degli antipod: Emil Zatopek. El Ouafi, campione di vita grama, morì in una sparatoria mentre si trovava lì per caso: stava bevendo un caffè ed era il giorno del suo 61° compleanno.

Sembra che i maratoneti facciano a gara a creare un effetto domino: un’emozione che frana su una sorpresa o sul remake di una pagina drammatica: c’è la storia di Dorando Pietri a Londra 1908 e quarant’anni dopo, ancora a Londra, ancora un calvario, questa volta di Etienne Gailly, paracadutista belga fulminato dalla fatica dopo aver appena iniziato a calpestare la terra rossa di Wembley, sorpassato dal pompiere argentino Delfo Cabrera e dal britannico Tom Richards, prima di cadere, rialzarsi, riuscire a strappare il bronzo del tormento e dell’estasi.

La maratona è un gioco di occhi e di sguardi. Bikila aveva sul viso la concentrazione assoluta; Salah, la sorpresa quando vide al suo fianco un tipo dall’espressione grifagna che lo stava scavalcando, il Gelindo Bordin di Seul; lo stortignaccolo Thugwane, la consapevolezza di stare regalando qualcosa di grande e inaspettato al Sudafrica, reduce da un lungo viaggio dentro la notte dell’apartheid; Nurmi, la freddezza distaccata di chi si vide negata la chance di metter le mani sulla decima medaglia d’oro per colpa dei dollari ramazzati nelle gare indoor americane; Stefano Baldini, il lampo azzurro della gioia dopo che quegli occhi avevano lanciato sguardi d’acciaio.

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