Rudisha, la strategia della vittoria
25 Agosto 2015A Pechino, l'olimpionico e primatista mondiale degli 800 metri conquista il titolo iridato con un'attenta lettura tattica della finale
di Giorgio Cimbrico
Si è ricreato: i geni sanno fare anche questo, riplasmarsi, offrirsi con modalità diverse, tornare a vincere. Dopo due anni tormentati, David Lekuta Rudisha ha capito che su schemi, strategie, tattiche doveva essere calato un colpo di cancellino. Se le meraviglie cronometriche del 2011 e del 2012 non potevano più essere offerte, se il rischio degli arrivi tumultuosi diventava una sirena d’allarme sempre più lacerante di fronte all’arrembare di finisseur crudeli (Amos, Aman, il nuovissimo Tuka) si trattava di rivedere i piani. La finale di Pechino inaugura un nuovo Rudisha, non più l’uomo del passaggio vertiginoso alla campana e del triturante tratto tra i 400 e i 600. Ora, un crescendo che lima gli artigli a chi li affila per il rettilineo finale.
Quando Rudisha e Ferguson Rotich che lo affiancava sono passati in 54”15, sembrava che lo gara fosse stata consegnata allo scaltro polacco Adam Kszczot e al bosniaco Amel Tuka a cui Gianni Ghdini affidava le possibilità di Grande Slam personale: con Andrea Benvenuti il tecnico veronese aveva vinto gi Europei, con Wlfried Bungei le Olimpiadi. In quel momento è nato il nuovo Rudisha che ha appoggiato dolcemente il piede sull’acceleratore, sempre esprimendo la bellezza di questa sua corsa poco aerea, con appoggi ben impressi sulla gomma. E’ stato un fenomeno quasi impercettibile, diventato sempre più chiaro, avvertibile, quando l’ultimo quarto di gara è stato imboccato e quell’azione calligraficamente esemplare era anche magnificamente efficace. Il cronometro avrebbe detto il perché: ma ora si tratta solo di pazientare
Rudisha davanti, mentre la muta prova a dargli la caccia, ma i due segugi più spietati, il polacco dagli occhi spiritati e l’ingegnere balcanico, non hanno le crudeli brillantezze consuete. Perché? La causa e l’effetto possono essere chiariti dal cronometro: a un primo giro in poco più di 54”, Rudisha ne fa seguire un secondo in 51”7, sovvertendo i termini classici. Una seconda parte più veloce può anche capitare, ma questa è più veloce, molto più veloce.
La sera della meraviglia che offrì al pubblico dello stadio londinese di Stratford, poco prima del colpo di pistola Rudisha si avvicinò al giovane Tim Kitum e gli sussurrò: “Non venirmi dietro, rischi di farti male”. Sapeva di avere dentro l’ideale, si trattava solo di estrarlo. Questa volta il perfezionamento tattico è stato quasi subdolo. “E’ in testa, ma va piano”, ha pensato qualcuno fra quelli che gli si sono accodati iniziando a gonfiare l’ambizione, a sognare lo scalpo. E quel qualcuno di lì a un pugno di secondi si è trovato a dover fronteggiare quel passo sicuro, elegante, efficace, capace di smontare velleità e kick finale.
Quella sera di tre anni fa, quando l’ideale dei 100 secondi venne sfiorato, Sebastian Coe, uno che di 800 se ne intende, lasciò ai posteri parole memorabili: “Bolt è stato bello, Rudisha è stato magnifico”. Da quel magic moment che scosse le fondamenta dello stadio olimpico, da quella luce che regalò una gioia molto vicina alla commozione (capita quando ci si trova faccia a faccia con un capolavoro), Rudisha è finito nel buio: un ginocchio che strideva come un cardine vecchio, un difficile rientro, qualche dura punizione rimediata da chi ama concitazioni da ultimi cinquanta metri elettrici.
Non si è arreso e quando aveva fatto capire che qualcosa nella sua condotta sarebbe cambiato, c’è stato chi ha alzato la cortina del dubbio: Rudisha era l’uomo del ritmo violento mascherata dall’eleganza innata e senza quell’arma sarebbe stato destinato alla sconfitta. E invece no. Il nuovo Rudisha ha mostrato a se stesso, al Kenya, al mondo che l’Ordine della Lancia Fiammeggiante aveva avuto in lui un perfetto destinatario. I membri di quell’ordine non si chiamano Cavalieri, ma Moran. Guerrieri, guerrieri masai.
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