Sopot, tributo alla Polonia atletica
08 Marzo 2014Da diverse centinaia di anni la Polonia è alle prese con problemi che di volta in volta hanno preso le sembianze dei russi, dei turchi, degli svedesi, dei tedeschi del tempo del Kaiser, dei tedeschi dei tempi di Hitler, dei sovietici di Stalin prima, di Breznev poi. Spesso stritolati, privati di tutto, messi alla fame. La premessa è rapida per non annoiare - evitando accuratamente i luoghi comuni su Chopin o sui lancieri che si scagliano contro i panzer – e per precipitarci il più rapidamente possibile sul tema: un tributo all’atletica polacca che ha elargito un patrimonio gigantesco, che non ha esaurito le sue vene e che, soprattutto, ha saputo esprimere campioni e campionesse in questa dimensione fatta di venti sport che è l’atletica.
Nel rugby c’è un bell’adagio: dice che in quel gioco c’è posto per chi suona il pianoforte e per chi lo spinge, fotografando le attitudini artistiche di un mediano di mischia e la possanza dei giganti della seconda linea. Anche l’atletica sa offrire abilità e fisici tra loro diversi e la storia di Polska ne è un perfetto paradigma. Chi ha ormai passato il mezzo del cammino di nostra vita ricorda la grazia e la bellezza efebica di Jacek Wszola (nessun dubbio che Luchino Visconti gli avrebbe offerto una parte) e il volto minaccioso di Wladislaw Komar, uno che a occhio era meglio non provocare se si entrava nel bar sbagliato per un caffè o un birretta.
Un saltatore in alto campione olimpico e un lanciatore di peso campione mondiale coltì così, in un campo sterminato che si stende dai Tatra alle spiagge della Pomerania dove un altro fuoriclasse (Roman Polanski) diede inizio alla sua irresistibile escalation con un piccolo capolavoro: “Il coltello nell’acqua”. Anche l’atletica è un bel film bianco e nero e a colori, con fotogrammi iniziali dedicati a Halina Konopacka, discobola e poetessa, prima donna nella storia dei Giochi moderni a diventar campionessa in una prova d’atletica. E poi, via, in una disordinata passeggiata nel tempo per ritrovare il gesto dell’ombrello di Wladislaw Kozakiewicz (per un polacco vincere a Mosca è come per un irlandese far festa nel cuore di Londra); il genio proteiforme di Irena Swewinska che con l’avanzare del’età sembra sempre di più uscita dalle pagine del capolavoro di isaac Singer, “La famiglia Moskat”; le ali ai piedi di Marian Woronin, per più di un quarto di secolo il bianco più veloce della storia; le ondate di generazioni di triplisti (a cominciare da Jozef Szmidt che usò il suo naso rapace per fendere l’aria e atterrare oltre il muro dei 17 metri), di martellisti, di giavellottisti; gli occhi verdi e il fascino da Orient Express di Teresza Sukniewicz; la corsa leggera di Andrzej Badenski, il gioco di gambe, degno di Nureyev, del gigante Thomas Majewski; le scuole tecniche solide che non scompaiono, e così eccoli proporre un paio di ragazze da due metri o nei pressi. Inesauribili e mai disposti ad arrendersi. E’ la loro storia.
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Sarà anche tutto telematico il mondo che ci circonda, ma in atletica è rimasto l’uso di inondare di fogli di carta che noi vecchi consultiamo, ora anche con maggior cura – quasi amore - temendo che siano gli ultimi su cui potremo posare i polpastrelli. In questi giorni passati dentro l’Ergo Arena sfogliare e scorrere prima di puntare il mirino degli occhi sulla pista, è servito a farsi un’idea su una globalizzazione ormai spinta e sulle facili promesse che i ricchi possono offrire, come un amo con il verme, ai poveri. Un esempio che chiarisce tutto: l’Etiopia, che un tempo se ne stava ben rinserrata, oggi offre mezzofondisti e soprattutto mezzofondiste a Turchia, Azerbaijan, Emirati Arabi, Bahrain, Germania, Svezia, Olanda. Assomiglia al Brasile che sforna giocatori per i paesi dell’area ex-socialista e per l’Asia. Per quel poco di mezzofondo che ancora qualcuno si ostina a coltivare, rintocchi funebri. Comprarsi una ragazzina promettente è più economico che allevarla. E’ il mercato, bellezza, dicono quelli che consigliano di rassegnarsi.
Giorgio Cimbrico
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