Topi di sala azzurri



Il termine “topo di sala” rimbalzò dalla sponda americana dell’Atlantico quando l’atletica indoor, qui, era una curiosità, una stranezza, un vezzo d’inverno: i roditori dei Millrose Games e degli altri appuntamenti della season americana rafficavano record su distanze astruse che finivano su elenchi ufficiosi e sterminati. I desideri di emulazione, si sa, muovono le montagne meglio delle più potenti leve e l’associazione europea, al tempo organizzata più o meno come nei giorni felici dei protagonisti di Momenti di gloria, concepì Giochi in sale rimediate qua e là: Praga (nella città magica Pasquale Giannattasio fu il più veloce) , Vienna, Dortmund e quel pistino da 160 metri nel centro di Madrid che, in pieni anni Ottanta, rivelò, stranamente sui 200, l’azione potente di un giovanotto inglese assai abbronzato e non più di primo pelo, Linford Christie, destinato, sempre in Spagna, diversi anni dopo, a ricoprire il ruolo di nonno del vento.

In principio fu Eddy Ottoz che divorò tre titoli consecutivi nei 60 (e 50) con ostacoli ma chi conosce l’aostano sa che quei risultati, quei picchi, quelle vittorie, quei tuffi non furono che gli approdi di questo buscadero che viveva l’atletica con la leggerezza e lo spirito easy rider che l’avrebbe condotto a cavallo di una Laverda tra Città del Messico e El Paso, in compagnia di Ottolina e Giani. Era un’atletica disinvolta, allegra, ironica, quella di Eddy, intrapresa con il gusto dell’avventura, del viaggio, del blitz: in occasione del suo bronzo messicano, quel buonanima di Alfredo Berra lo paragonò a un isolato Orazio costretto ad affrontare tre scuri e massicci Curiazi e Ottoz certo sorrise di fronte a quell’eroico paragone che trasformava in guerriero chi poteva essere accostato, semmai, ad un geniale e intelligente matto shakespeariano.

In una narrazione che ha mosso appena i primi passi, sia permessa una digressione sull’ambiente che poteva esser vissuto in quei primi anni di rassegna europea. Grenoble ’72, l’edizione in cui chi scrive e un paio di indimenticabili amici si imbucarono, offre uno scenario oggi impensabile: zero sicurezza, zero accrediti, zero controlli. Il risultato è che, come in Tre uomini in fuga, con il formidabile De Funes, i nostri, e vostri, eroi entrarono nel Palais des Sports mischiati alla banda degli Chasseurs des Alpes, forniti di magnifici e grandi baschi e, guadagnata una scala che portava nel bassifondi, destinati ad area di riscaldamento,, andarono a sbattere dentro un giovanotto biondo e robusto che si sottoponeva a partenze e allunghi: Valeri Borzov. Un anno dopo, a Rotterdam, senza la presenza dei turisti mattacchioni, Renato Dionisi avrebbe piantato una bandierina su una carriera troppo perseguitata dalle noie tendinee per esser veramente compiuta, mettendo in fila un’eccellente concorrenza e dando un seguito ad applauditissime – e frequentatissime – serate genovesi che videro il trentino affrontare e piegare Isaksson, Lagerqvist, Papanicolau e un giovane Slusarski.

E’ tra gli anni Settanta e il fiorire degli Ottanta che Sara Simeoni anticipa in ivenro ciò che offrirà nelle sue estati più rigogliose. I quattro titoli conquistati nelle cinque edizioni tra il ’77 e l’81 prendono il via con il successo all’Anoeta di San Sebastian, nel pomeriggio che vide l’invasione degli attivisti dell’Eta per una manifestazione che, all’aperto, vide l’intervento duro della polizia in un paese ancora lontano dalle aperture politiche e sociali di questo nostro tempo. Gli inverni di Sara potrebbe essere il titolo di un bel librino, corredato di fotografie in bianco e nero: una nottata passate in auto, immobile nel gelo, bloccata sull’autostrada tra Milano e Genova, con gli strumenti di lavoro, i piedi, al caldo sotto le ascelle di Erminio: gli allenamenti nei singolari tepori russi di Sochi e di Adler; la scoperta del caviale sulle rive del Mar Caspio. Qualcuno può azzardare che l’attaccamento alle gare sotto il tendone possa derivarle dal compagno di vita che, alla prima trasferta importante, finì, ragazzone di Pisciotta, sui leggendari legni newyorkesi, impegnato ad affrontare un nuovo record italiano richiesto dopo complicati calcoli per trasformare i metri e i centimetri in piedi e pollici, proprio mentre gli operai stavano smantellando l’impianto per adattare in tempi assai contratti il Madison Square Garden alle necessità dell’hockey su ghiaccio..

Stefano Tilli, romano di Prati e etrusco orvietano per i cultori delle linee di sangue e delle catene dei geni, esplose in un inverno genovese – uno dei tanti vissuti al Palasport della Fiera del Mare – e di lì a un mese completò la sua irruzione in scena mettendo a segno la botta giusta sul rettilineo dell’impianto a un tiro di sasso dal Nepstadion di Budapest. Occhi metallici e riflessi da corda di balestra, avrebbe raccolto proprio nelle arene ridotte il meglio : l’altro titolo continentale, ad Atene, sui 200 e, ancora su questa distanza, il record mondiale (20”52) di Torino prima che il tappeto elastico di Lievin terremotasse la cronologia del limite, sino alla fantasmagorica gara dell’87 e alla discesa di Frankie Fredericks sotto il muro dei 20”..

Ce ne sono di storie, magari piccole e singolari e fortunose, come quella che portò la lombarda Stefania Lazzaroni sul podio del alto in lungo in forza di una gara assi poco frequentata; magari terribilmente promettenti, come quella che fece affiancare ad Andrew Howe la corona d’inverno a quella estiva, conquistata meno di sei mesi prima a Goteborg: quell’8,30 improvvisato riportò a un’identica misura invernale raggiunta nel ’68 da Bob Beamon, nella vigilia lunga del’Olimpiade messicana e del primo volo librato della storia. Anche Andrew a Osaka volò in una rabbia improvvisa, in una speranza sferzante, non abbastanza per limitare l’ultimo assalto del gentile Saladino.

Cifre, volti e immagini che si affollano: Pietro Mennea che assaggia e vince i 400 nell’inaugurazione dell’anno, il ’78, che gli avrebbe dato l’unica accoppiata 100-200; Agnese Possamai (magari non calligrafica ma capace di tre titoli, seconda solo a Sara) e Gabriella Dorio che lasciano segni su un mezzofondo europeo di ben altra portata di quello d’oggi; la vittoria di Donato Sabia in uno Scandinavium generoso con la spedizione azzurra, annuncio della finale olimpica che il potentino avrebbe conquistato a Los Angeles; l’aeroplanino di Genny Di Napoli in fono a un ultimo giro da domatore, a Genova ’92; le bordate di Paolone Dal Soglio e di Assuntina Legnante; l’oro di Fiona May, a completare una collezione a cui, per la completezza, manca solo il titolo olimpico.

La storia dei numeri dice che l’Italia, tra Giochi e Campionati, ha messo le mani su 26-25-25, con il solito, buon aiuto fornito dalla marcia (Maurizio Damilano, Giovanni De Benedicts, Annarita Sidoti) ormai eliminata da tempo. Il primo che salirà su un podio dell’Oval torinese scandirà il 77° rintocco. Il luogo portò bene a Enrico Fabris, diede a quei gironi olimpici la colonna sonora del valzer dei pattinatori d’Italia, regalò pochi mesi dopo gioia esuberante a Margherita Granbassi, in fondo alla finale sorellicida con Valentina Vezzali. Pare che le trasformazioni a cui viene di volta in volta sottoposto non abbiano indotto lo spirito azzurro a fare i bagagli.

Giogio Cimbrico*

*Giornalista, Il Secolo XIX

Nella foto, una veduta del Pala Oval Lingotto (Giancarlo Colombo per Omega/Fidal)




Condividi con
Seguici su: