Un giorno, un'impresa
19 Maggio 201319 maggio. Per l’atletica italiana uno dei giorni chiusi a mandata doppia nella storia, nella gloria, nella gioia che scorre come una sorgente che non si esaurisce mai. E’ quello della nascita di Livio Berruti che oggi taglia il traguardo dei 74 anni.
“Pensa, Livio, Bolt ti avrebbe dato quindici metri”. “Quanto ha fatto? 19”19? Allora sì, palmo più palmo meno, il distacco è quello. Ma non vale: lui ha preso i metri per yards”. Il riso di Berruti è lieve, spande consistenza aerea, volatile, invita al viaggio nel tempo perduto e ritrovato (anche Proust era lieve…), allo sbarco sulla spiaggia del 3 settembre 1960, il B-Day, quello delle due ore che cambiarono lo sport italiano. “La più grande impresa di tutti i tempi, sei d’accordo?” preme la voce recitante. E lui: “Può darsi, è probabile. Lo pensi davvero?”, con la stessa capacità di constatazione, ma anche di resistente dubbio, senza sicurezze di facciata, senza vuote arroganze. Tutta Roma 1960 fu così: i Giochi degli uomini e delle donne magnificamente umani, senza muscoloni sospetti, senza documenti falsi (le ginnaste erano ragazze, donne, non bambine da circo), senza uno sport che prendeva alla gola, strozzava, stressava, senza le convenienze bottegaie che oggi sono tutto. Livio ne è simbolo: il giovane gentleman, quello che si allenava il giusto (forse poco; oggi, niente…) e che aveva un padre che si preoccupava che il suo figliolo finisse per pagare troppo care certe fatiche e, nero su bianco, lo scriveva agli allenatori.
Livio è dentro le due ore (abbondanti) del pomeriggio 3 settembre, lo spazio-tempo che corre tra il capolavoro della semifinale e l’indelebile della finale. Immagini, suoni, parole, ricordi, testimonianze concorrono alla creazione di un quadro storico: i tre primatisti del mondo (Ray Norton, Stonewall Johnson e Peter Radford) non lo stritolano, al contrario, è lui a spedire fuori dal ring il britannico, a trasformare in tetrarchia il vertice della distanza.
Un italiano primatista del mondo dei 200: si era mai vista una cosa simile? Gli italiani marciavano, correvano il miglio metrico, avevano avuto un prodigioso Ercole veneto che con voce sottile aveva recitato il giuramento, una volta avevano persino esibito una signorina dal nome impossibile, Trebisonda, ma gli sprinter erano altrove, in America, magari in Germania. E venne quel 20”5 e “a quel punto sentivo dentro una gran fifa, sparii e qualcuno disse che ero un tipo scostante”. E il riso ritorna, come un torrentino di primavera, un rigagnolo che conduce allo sgabuzzino dove Livio legge un libro di chimica – la sessione autunnale di esame è alle porte - mentre gli altri sono a scaldarsi ai Marmi (lui ci andrà giusto per qualche minuto, per un accenno di allungo) e Giorgio Oberweger e Peppino Russo (se n’è andato vegliardo, poco prima che prendesse il via il Giubileo dei Giochi) vanno a saggiare la consistenza della pista. Ma intanto Livio ha già deciso: non correrà con le Adidas, preferisce le Valsport bianche. Oggi andrebbe incontro a dei guai.
Rivedere le foto, scattate da diverse angolazioni, della finale è costruirsi una successione di immagini mute, accompagnate dalla colonna sonora dell’emozione – pulsazioni in aumento, stretta alla bocca dello stomaco - che cinquant’anni abbondani non hanno cancellato, sottoposto a una diminutio. La curva perfetta, la variazione di assetto (ginocchia più alte) all’ingresso del rettilineo suggerita dal mentore, il vantaggio molto netto che Lester Carney inizia a erodere. “Correva alla mia destra, lo sentivo”. Sulla terra rossa gli appoggi erano dei bump che parevano diretti al mento. La decisione di lanciarsi in avanti: ma qui non c’è bisogno di attendere quattro minuti come capiterà tre giorni dopo per Otis Davis e Carl Kaufmann, divisi solo dal bisturi del fotofinish, uniti nella prima discesa sotto i 45”. Qui la vittoria è molto netta, molto chiara: 20”5 a 20”6, 20”62 a 20”69, andando a consultare il crono elettrico che agiva al fianco di quello manuale. Ancora record del mondo uguagliato, ancora un rovescio per i velocisti Usa che avevano dovuto incassare sconfitta da Armin Hary, il secondo europeo a fregare gli Usa dopo Harold Abrahams annata ’24, pregiata come uno Chateau Lafitte. Ma questa è una premiere assoluta: in 60 anni di 200 corsi a Giochi, l’oro era stato portato a casa da dieci americani e da due canadesi. Europei o europei mediterranei, mai, zero. “Non te l’ho mai perdonato”, ripete da quasi cinquantatre Eraldo Pizzo a Berruti. L’oro del Settebello finì, come si dice in gergo, di taglio. Le testate, i titoloni, le aperture furono per Livio.
E in giorni di tamburi lontani ci ritroviamo, come in una cantata di Bach, nella mente, nel cuore, negli occhi con quell’immagine: un giovane sottile, occhiali scuri, che corre come un Mercurio e dopo l’arrivo incespica come se la dimensione divina si fosse interrotta dopo venti secondi di azione sublime e in tribuna il bel mondo che si è radunato (c’è anche Jesse Owens) ha soltanto parole piene di meraviglia e i giornalisti italiani, quelli di una generazione perduta, possono scrivere le loro cronache marziane, nella commozione vera, non in quella plastificata del nostro tempo sterile, volgare e urlante.
Giorgio Cimbrico
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