Una storia al giorno
09 Agosto 20139 agosto. Un paio di settimane fa, su Rai Sport, è stato anticipato il trentesimo anniversario di quel che Albertino Cova combinò sulla pista di Helsinki. Provate a rivedere una partita di calcio di cui conoscete già il risultato: una menata pazzesca. Questi 28’, invece, sono (sempre) avvincenti, di quelli che lasciano svuotati. “Secondo me, non ce la fa”, dice il doppio che è in tutti noi e c’è un momento in cui l’oscuro Jekyll sta avendo la meglio sul povero e sempre più debole Hyde che si aggrappa a un ricordo preciso e tenta di ancorarsi ai testi che sono lì, nello scaffale accanto.
Entrando in diretta, una cosa bisogna dirla: Alberto, pettinato perfettamente e con quei baffetti da ufficiale del Secondo Impero, corre con una padronanza assoluta. Lascia che Shahanga, Kedir e Debele offrano il loro repertorio africano di cambiamenti di ritmo, non degna di uno sguardo gli affanni di Salazar e soprattutto di Mamede che in batteria aveva tirato il collo a tutti, anche a lui. Sempre con gli occhi rivolti in avanti. Non felini. Attenti, piuttosto.
Una gara strana, in cui a un certo punto sembra avere la meglio lo spirito della drole de guerre, della guerra non guerreggiata, come da etichetta varata sul fronte francese nella primavera del ’40, prima dell’accendersi della blitz krieg. Attesa, studio, andatura che si spegne (quel buonanima di Paolino Rosi per un po’ tiene conto del passaggio mondiale di Henry Rono, poi capisce che è meglio lasciar perdere…) per ravvivarsi gradatamente ed esplodere sotto le spinte di Werner Schildhauer che non è un caso venisse chiamato il dinamitero.
E qui arriva il panico. Perché Schildhauer sembra proprio forte e il biondo platino Hans Joerg Kunze, stessa canottiera blu bordata di bianco con martello e compasso, ha il passo giusto per tenergli dietro e dar vita a quello che in F1 chiamano arrivo in parata. Non sembra stracco neppure Gidemas Shahanga che si è divertito a fare l’elastico, e non lo è di sicuro Martti Vainio che, quando è andato ad accendere il focherello sotto il ritmo, ha fatto alzare dal pubblico di Suomi un bramito simile a quello dell’alce in amore.
“Cova, Cova, Cova”, Rosi comincia a dirlo quando si entra nel territorio degli ultimi 200 metri. Si è reso conto che Albertino è ancora dietro, molto dietro, ma è brillante, presente, deciso. E’ dietro anche quando l’ultimo rettilineo è cominciato e si sta consumando e, come dice il Commendatore in Don Giovanni, “ah, tempo più non v’è”. E invece Alberto trova tempo e spazio e Rosi inventa il suo gorgheggio, aspro e pietroso: “Cova, Cova, Cova, Cova”. E subito dopo, quando è fatta, dice una cosa bellissima: “Il tempo è… ma cosa importa il tempo. Cova ha vinto”. E intanto lui corre e saltella sulla pista, con una piccola bandiera e senza isterie.
Play it again, Alberto. E lui la suona ancora e vince, e Jekyll può tornare nell’oscurità e tutti, come diceva Oskar Schindler, sono felici. E anche terribilmente stanchi. Questa gara è tremenda e il più fresco sembra lui, Cova, Cova, Cova, al secondo atto della Triplice Corona. In realtà, la rubrica oggi andrebbe dilatata, raddoppiata. Perché un anno fa, a Londra, David Rudisha realizzò quel che è nel sogno di tutti i campioni: vincere l’Olimpiade con il record del mondo in fondo alla più bella gara d’assieme della storia. Realizzare il capolavoro, come riuscì a Giorgione con la Tempesta, o a Bach con le Variazioni Goldberg. Rudisha ci riuscì e ogni altra aggiunta è un orpello.
Giorgio Cimbrico
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