Una storia al giorno
10 Agosto 201310 agosto. Il record italiano dei 400hs compie dodici anni ma oggi è soprattutto la celebrazione di un’impresa che trasformò Fabrizio Mori in uno dei personaggi più belli usciti dalla testa e dalla macchina da scrivere di Ernest Hemingway: l’Invitto. Perché si può anche vincere da sconfitti se ci si batte ai limiti e oltre, se si finisce per cedere a chi, in quel momento, sembrava destinato a scalzare dal trono, su cui è ancora seduto, Kevin Young: Felix Sanchez ebbe la meglio per cinque centesimi (47”49 a 47”54) su quel pezzetto in piano che viene alla fine di dieci tratti che prevedono lo scavalcamento di un ostacolo: la gara che uccide, la chiamavano gli inglesi affibbiandole patenti di nobiltà temprata dalla spietatezza, arricchendola con il ricordo di clamorose rotture degne di sfiancati purosangue, di rimonte, di prodigi offerti nella scansione del ritmo.
Per dieci barriere il livornese dal fisico antico, del tempo in cui la possibilità di essere normali garantiva l’appartenenza a un’élite, pensò (sognare è un atteggiamento troppo lieve ed estatico…) di entrar di forza nel club di coloro che, in appuntamenti di rilievo assoluto, erano riusciti nell’impressa di doppiare su quel terreno.
Quattro anni prima la sua vittoria era stata una marcia nella difficoltà, nei sospetti altrui, nei ricorsi. La litania era iniziata in fondo a una semifinale che Stephane Diagana aveva concluso in testa, qualche centesimo avanti a Fabrizio. Poco dopo, la voce, che diventa notizia, di una protesta dei nostri amati cugini: per loro, Mori in curva passa con una gamba sola. Eccezione respinta, assolto, colpo di martello da parte del presidente della giuria, ma anche la sensazione che su di lui monteranno una guardia spietata e accederanno i riflettori.
La finale è appesa in quel caldo infernale dell’Andalusia di fine agosto. Fabrizio è allenato da Roberto Frinolli, il magnifico ultimo di Città del Messico ’68. E’ il momento di una vendetta da consumare freddissima? Frinolli, flemmatico, educato, preferisce non rovistare nel passato e guardare solo al giorno decisivo, nello stadio sull’immensa isola del Guadalquivir. Un giorno terribilmente lungo, difficile. Per Fabrizio, per Roberto, per tutti noi, perseguitati dall’orologio che incalzava. Perché dopo quell’arrivo trionfale, dopo quel 47”72 accanto a cui apparve WL, mondiale stagionale, si abbattè ancora la carta bollata dei francesi e tutto entrò in un limbo che sembrava non dovesse aver fine mentre nella clessidra scendeva sabbia. Lo stadio era diventato una sala parto in cui aggirarsi, schiacciare mozziconi (si poteva ancora fumare…) o prendere una decisione. Venne presa e fu quella di scrivere due pezzi, diametralmente opposti: il Trionfo di Mori e Mori, l’Oro Confiscato. Erano della stessa lunghezza, sulle 80 righe, e solo quando le 23 erano passate da un pezzo, fu consentito avvertire la redazione che era buona la versione A.
Ed è in questi casi che l’impresa di un altro diventa patrimonio dei tanti che l’hanno vissuta sulla pelle e che per essa hanno consumato qualche milione di cellule cerebrali. Non stiamo chiedendo i danni a Fabrizio, faremmo tutto da capo, solo che non sarebbe più possibile perché saremmo preceduti da un cinguettio o da qualche altra diavoleria. A Edmonton, dodici anni fa, tutto molto più chiaro, definitivo, senza una goccia di dolore. Fabrizio era stato perfetto, battuto di un niente da chi avrebbe saputo scrivere pagine commoventi di ritorno e di riscatto.
Giorgio Cimbrico
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