Una storia al giorno

16 Agosto 2013

Personaggi e vicende dell'atletica di sempre

16 agosto. Quattro anni fa Usain Bolt abbracciò Berlino con cui aveva stretto una forte amicizia. Non la città, ma l’orso che si congratulava con i vincitori. In quei momenti dentro l’Olympiastadion, dotato di un archivio di memorie senza eguali (e non tutte sportive), volavano le note di una canzone degna di vecchi cabaret e di tempi che stavano per diventare molto bui, ed era facile riesumare Marlene Dietrich, Lotte Lenya, Liza Minnelli in Cabaret. Tutte queste citazioni, questi ricordi non riguardavano Usain che ha una personale dimensione del mondo in cui il passato ha poco spazio. Proprio in quei giorni a chi gli domandava di Owens e del luogo dell’indimenticabile quaterna, rispose che “sinceramente non so chi sia Owens. Sapete, ho 23 anni”.

Concesso perdonare chi, prima di aver intavolato un cordiale dialogo con il maxi-pupazzo, aveva regalato il prodigio. Miglior etichetta non viene per il 9”58 che diede seguito a quel che tutti avevano già giudicato supremo, il 9”69 pechinese di 365 giorni, con passaggio deciso a quel che nell’epica ricade nel repertorio del “meraviglioso”. Senza l’aiuto delle benevola Atena o delle ali dell’ippogrifo. Come in occasione del suo primo record mondiale, il 9”72 newyorkese, Tyson Gay diede il meglio di sé ma accusò identico distacco, 13 centesimi, che a quella velocità corrispondono a un metro abbondante. Asafa Powell ne accusò due e mezzo. Sui due piazzati inutile evocare fatti recenti e spiacevoli.              

“Per me nulla è impossibile”, disse. Vero, Usain inventò anche la scatola cinese dei record e dei limiti roventi. Dentro il 9”58 dello stupore, del Wunder sparato da tutti i giornali tedeschi, venne misurato anche il 6”31 sui 60, otto centesimi meglio del triplo campione mondiale Maurice Greene che, da dietro il microfono, sbrigò l’impresa con efficacia di due sole parole: “Altro pianeta”; furono registrati  43,690 orari negli ultimi 50 metri divorati in 4”12, e 44,400 toccati tra i 70 e i 90, il picco più alto mai toccato da essere umano.

Rocket man, cantava una volta Elton John, ma non è il caso di Usain: lui non è la potenza devastante di Ben Johnson, non è il procedere apollineo di Carl Lewis, non è la calligrafia sostenuta dalla forza di Asafa Powell. Lui è Bolt, l’astro che è sorto e che rimane lì, piantato in un cielo che non è di carta, è quello che, parole sue, è entrato nella storia, che mangia casual (“anche prima della finale, nuggets, bocconcini di pollo fritto”), che sa esprimere un suo Assoluto che chissà da dove proviene: dalla selezione secolare della sua magnifica razza, approdata in Giamaica dall’Africa Occidentale quasi quattrocento anni fa, dopo un viaggio su navi negriere; da un fortuito incrocio cromosomico; da una perfezione scandita nella spirale del Dna. E Wellesley Bolt, massiccio padre, raccontava quel che a Pechino aveva confidato mamma: “A sei mesi era in piedi”. E vengono in mente mitologiche scene di Ercole fantolino che strozzava serpenti che pencolavano troppo vicino alla sua culla.

L’ampiezza e la frequenza sono i postulati per finire nel Grande Gioco dei limiti umani, specialità frequentata da biomeccanici, fisiologi, allenatori, giornalisti in vena di titoli a sensazione. Con Usain di mezzo, questi titoli sono diventati solidi, reali. Mantenendo quell’ampiezza e riuscendo a portare a 5 passi/secondo la frequenza, per Bolt si spalancò l’ipotesi della Corsa Assoluta, verso gli 8”80 (già toccati in staffetta) che potrebbero farlo sparire alla vista, pilotarlo in un’altra dimensione, al largo di Orione. A quattro anni da quel fascio di luce, tutti ne sono ancora abbagliati, ma lui continua a sostenere che non basta. Il 9”63 londinese,  a 15° di temperatura, dimostra che ha ragione lui.

Giorgio Cimbrico



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