Una storia al giorno
03 Settembre 20133 settembre. Ancora Roma, in quel luminoso settembre del 1960 che rivelò un mondo che ci ha accompagnato per più di mezzo secolo. Come per Hary, la “prima” di un atleta che non parlava inglese: dopo dieci americani e due canadesi, e un ancor più netto spostamento di coordinate. A vincere tocca a un latino, a un italiano, a un piemontese: Livio Berruti.
Non è per esibire uno snobismo fuori luogo, ma quel giorno il vero capolavoro di Livio è la semifinale che alle 15,15 lo mette di fronte ai tre primatisti del mondo e che si trasforma in trappola senza uscita per il britannico Peter Radford, in campanello d’allarme per Stonewall Johnson e per Ray Norton. Chi è questo italiano che nasconde lo sguardo dietro lenti scure, che corre una magnifica curva e si permette di chiudere in 20”5, di uguagliare il loro primato del mondo, in un irto turno eliminatorio?
“Dissero che in quell’intervallo di due ore abbondanti che portava verso la finale trattai tutti con un certo distacco – racconta Livio – in realtà avevo una paura terribile. Fu il mio doping”. Nacque persino la leggenda che, seduto su una panca allo Stadio dei Marmi, avesse eroso il tempo ripassando un testo di chimica per un esame che lo aspettava a Padova.
Il resto è stato visto, rivisto, accarezzato da chi è nato dieci, venti, trenta, quarant’anni dopo quella vittoria: l’accenno di falsa partenza di Johnson e di Berruti (lo starter Pedrazzini la classificò come un “al tempo”), la curva disegnata con la solita calligrafia, l’alzarsi di colombe che gli aruspici del dopo inidividuarono in segno favorevole del fato, il metro buono conquistato e difeso, “la sensazione di correre nel silenzio”, i sette centesimi tenuti su Les Carney, il franare elegante sul filo (c’era ancora, in quei giorni memorabili), la caduta sulla terra rossa, il secondo record del mondo in due ore (20”5/20”62; in semi 20”5/20”65), gli applausi di Jesse Owens, Grace Kelly, Bing Crosby: quel giorno all’Olimpico c’era un elegante mondo sparito, senza volgarità, senza isterie.
Livio scelse di correre con un paio di bianche e caserecce Vallesport, rinunciando alle Adidas. “Ti avremmo dato 300.00 lire”, quasi pianse il rappresentante italiano dell’azienda bavarese. Lui, cavaliere di un altro sport, non se l’era nemmeno immaginato. Con il premio del Coni, arrotondato a 1,200.000 per i due record del mondo, aggiungendo 600.000 di tasca sua e approfittando delle condizioni favorevoli concesse dall’ingegner Valletta, comprò una Giulietta Sprint. Stare al volante gli è sempre piaciuto e stava per costargli la vita.
“Era il pezzo che desideravo scrivere da sempre”, picchiò sui tasti Gianni Brera e altro non c’è da dire. Le celebrazioni brevi sono le più belle. Riservano a chi mantiene dentro quelle sensazioni la possibilità di cercarle nell’armadio della memoria e di trovarle immacolate, capaci di ramificarsi come l’albero della vita.
Giorgio Cimbrico
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