Una storia al giorno
10 Novembre 201310 novembre. Compleanno molto tondo, cinquant’anni, per Mike Powell da Filadelfia, quello che sapeva interpretare le correnti d’Asia (secondo a Seul ’88 con 8,49 che sembrò uno sparo nel buio) e che tre anni dopo a Tokyo meritò un’etichetta strappata dall’affiche di un capolavoro di John Ford: L’uomo che uccise Liberty Valance.
Per rivivere il 30 agosto 1991 allo Stadio Nazionale di Tokyo, finale del lungo ai Mondiali numero 3, non è il caso di ricorrere a ricostruzioni barocche, troppo ricche di parole, né sono necessarie troppe note sul pentagramma per tentar di riassaporare il clima della vigilia, quando, a quasi 23 anni di distanza, la demolizione del record di Bob Beamon suonava come molto probabile quanto il nome del demolitore: lui, Carl Lewis. E’ già tutto scritto nel foglio gara, turno dopo turno: Carl passa in testa dopo il primo turno atterrando a 8,68. Al terzo, con vento leggermente oltre la norma (2,3 a favore) allunga a 8,83 e al quarto forza le colonne d’Ercole messicane regalando il più lungo salto della storia, 8,91 con 2,9 alle spalle. Sarà anche irregolare ma lo stadio mormora come un’immensa conchiglia. A quel punto Mike Powell è distante 37 centimetri e la gara sembra sopravvivere solo in forza di ogni rincorsa di Carl, purosangue volante che all’asse si avvicina con quell’assetto nobile, a ginocchia alte, prima di tranciar l’aria.
Alle 19,07 il vento umido cade, Mike cerca e trova la grazia, scova un decollo formidabile e mette a segno il più bel tiro da tre punti della sua carriera di giocatore mancato dell’amato basket: il suo 8,95 con una brezza pressoché inesistente è la cometa attesa da quasi un quarto di secolo. Dopo aver lungamente gonfiato le gote come una raffigurazione di Eolo in antichi atlanti, Powell saluta il prodigio abbracciando il primo giudice che gli viene a tiro e spalancando la grande bocca in un sorriso estatico, non beffardo, saltando, questa volta in alto, e avviticchiandosi nell’aria spessa, scosso da una scarica elettrica, senza esser colto da collasso come era capitato all’estereffatto Beamon.
Carl non offre nessun sorriso, neppure quello immobile della sfinge, non si sente derubato e risponde con un record personale portato a 8,87, che lo colloca (tuttora) nella terza posizione di tutti i tempi, ed è capace di tener ancora la testa fredda e sgombra per l’ultima rincorsa, lanciata in condizioni ideali, con un vento benigno appena sotto i 2 metri: 8,84. In un grafico impazzito, la media dei quattro validi di Powell dà 8,40; in un grafico mirabile, quella dei cinque salti validi, ventosi o no, di Lewis è 8,82. In poche, scabre parole: Carl vince cinque turni su sei e ne basta uno a Mike per conquistare il potere della corona e la gloria del record che assomigliava a un pianeta proibito, a un giardino perduto, a un Graal. Lewis ebbe la meglio anche per velocità espressa in fase di entrata sull’asse di battuta, oltre 11 metri al secondo; Powell li sfiorò soltanto in occasione del record che una misurazione virtuale, dal punto dello stacco alla prima traccia sulla sabbia, accreditò come 8,98. Dove risiede allora il segreto del suo successo? L’ipotesi più salda sta nel decollo e nella capacità di spingersi più in alto nell’aria.
Meno di un anno dopo, in condizioni favorevoli e illegali (2050 meri sul livello del mare, a Sestriere, e 4,4 di vento a favore) Powell avrebbe toccato 8,99, a meno di mezzo pollice dalla barriera che nessuno ha saputo infrangere. Nei quindici testa a testa con Carl offerti in otto stagioni, Mike aveva collezionato quindici sconfitte e a cedere sarebbe tornato di lì a un anno sulla pedana di Barcellona provando a rifilare un secondo diretto al mento all’ultimo round: Lewis, 8,67 al primo turno, rimase in piedi per tre centimetri e per il terzo oro filato. Il quarto sarebbe arrivato ad Atlanta, condito dalle lacrime. Un acciaccato Mike finì quinto, molto lontano. Aveva già avuto il suo giorno. Colossale.
Giorgio Cimbrico
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