Una storia al giorno
13 Novembre 201313 novembre. Trent’anni fa, vecchissimo, a 92 anni, moriva Shizo Kanakuri, il maratoneta che sparì, che ricomparve, che volle finire il suo lavoro e che impiegò 54 anni, otto mesi, sei giorni, cinque ore, trentadue minuti e trenta secondi per lasciarsi alle spalle 40 chilometri. I giapponesi, perlomeno quelli di una volta, sono pazienti e non lasciano le cose a metà.
Su Shizo avrebbero dovuto fare un film. In attesa che qualcuno ci pensi e butti giù una sceneggiatura, non resta che provare a ricostruire la sua avventura. Comincia con una colletta promossa dall’Università di Tsukuba e a cui partecipa anche Jigoro Kano, padre fondatore del judo. Si tratta di raccogliere denaro per inviarlo alla maratona dei Giochi di Stoccolma e li raccolgono: 2000 yen del 1912 sono una grossa somma. Come il bergamasco di una famosa barzelletta, Shizo parte in treno e via traghetto approda a Vladivostok, sale sulla Transiberiana e, attraverso taiga, steppa, Urali, vede scorrere dal finestrino l’Asia quanto è lunga e un bel pezzo d’Europa. Dopo diciotto giorni è a Stoccolma. Un secolo dopo, avrebbe impiegato una dozzina d’ore di aereo.
Sembra sia arrivato il 2 giugno, un mese e mezzo prima del suo impegno che cade il 14 luglio e che va in scena in una giornata calda (32°), torrida per la Svezia, fatale al povero portoghese Francisco Lazaro che muore il giorno dopo per una meningite fulminante. Kanakuri fa gara di testa con i sudafricani Kennedy McArthur e Christopher Gitsham (che si divideranno le medaglie più pregiate) sino al 20° chilometro. Alcune fonti gli assegnano un record personale di 2h32’, prestazione improbabile dal momento che la miglior prestazione di quel tempo è palleggiata tra il britannico Henry Barrett (2h42’31”) e lo svedese Thure Johansson, 2h40’34”.
Come Forrest Gump, ad un certo punto Shizo si sente un po’ stanchino, trova gentile ospitalità da una famiglia svedese che abita sul percorso, accetta un succo di frutta e si addormenta. La leggenda olimpica narra che nel 1896 Spiridon Louis si fermò in una taberna, mangiò, bevve, ripartì e li riprese tutti. Shizo, invece, si risveglia quando il sipario è calato. A quel punto, sparisce e né al comitato organizzatore, né all’ambasciata nipponica sanno qualcosa di lui. Non c’è dubbio che soffra, almeno per un po’, della sindrome del samurai che non ha portato a compimento la sua missione. Ma non commette né harakiri né seppuku. Cambia la parola, ma l’atto dello sventramento rimane molto spiacevole. Ricompare ad Anversa otto anni dopo ed è 16°, e si fa vivo anche a Parigi 1924 ma si ritira. Ed è sufficiente perché gli appiccichino addosso l’etichetta di padre della maratona giapponese.
Completa quel che non aveva portato a termine nel ’66, su invito di un giornale di Stoccolma. “Cosa hai fatto nel frattempo?”, gli domandano. “Tante cose. Tra le altre, sei figli e dieci nipoti”. E così torna e corre i 20 km che mancavano, per la peggiore prestazione di tutti i tempi sui 40 chilometri e 200 metri, più di mezzo secolo.
Giorgio Cimbrico
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