Una storia al giorno
01 Gennaio 20141 gennaio. Una medaglia d’oro la conquistò anche il barone: capitò a Stoccolma 1912, per la sua Ode allo Sport. Giochi letterari, filosofici, idealistici, la culla di Pierre Fredy de Coubertin, nato il giorno di Capodanno del 1863, che non risulta esser mai stato un atleta ma al quale, naturalmente, tutti noi dobbiamo gratitudine. Perché se quel baffuto e piccolo aristocratico si fosse dedicato ad altro – esplorazioni, collezioni d’arte, mondanità, come fecero tanti altri appartenenti al suo ceto -, non avemmo vissuto, grazie alle narrazioni scritte e orali e all’esperienza diretta, la storia dei Giochi Olimpici che, nessuno lo può negar, è soprattutto un magnifico epos di atletica. Tanto per appoggiarsi alla solidità dei numeri, sufficiente pensare ai biglietti venduti un anno e mezzo fa a Londra: 1.600.000 per una ventina di sessioni attorno a una pista e a un insieme di pedane. Certo, ogni gara richiamava, ogni sito era frequentato (10.000 in aperta campagna per il giorno d’oro del canoista Molmenti), ma alla stazione di Stratford il traffico pareva quello di Calcutta nelle ore di punta.
Fondando l’Olimpiade moderna, de Coubertin divenne anche il padre dello sport che noi amiamo e che proprio ai Giochi ha finito per stendere le pagine più belle, trascinanti, indimenticabili. La domanda è: come arrivò a tanto? Nelle storie semplificate, il barone arriva in Grecia, trova chi lo appoggia e mette mano al portafoglio (i fratelli Zappas, Dimitros Vikelas e soprattutto George Averoff che, da solido commerciante, aveva un forte conto in banca) e, tra difficoltà logistiche a ambientali, riesce a riorganizzare quel che il Cristianesimo trionfante, già regno dell’intolleranza, aveva deciso di seppellire come manifestazione pagana. In realtà de Coubertin aveva un telaio culturale e pedagogico profondo: era andato a Rugby (dove nel 1823, tra realtà e leggenda, era nato il gioco ovale) e aveva apprezzato i metodi di Thomas Arnold e aveva avuto contatti con William Penny Brookes, che aveva iniziato a coltivare i vecchi campi abbandonati dell’olimpismo classico.
Quelle frequentazioni lasciarono segni. Per i vittoriani lo sport era un’attività legata al tempo libero. Non è un caso che a Oxford, a Bath o in altre località universitarie britanniche il luogo deputato allo sport si chiami Recreation Ground, il cortile della ricreazione. I professionisti, che stavano per popolare il calcio e il rugby ed erano assai attivi nell’atletica, non potevano accedere ai Giochi, offerti a giovani gentiluomini ovviamente dilettanti. De Coubertin era presidente del Cio quando Jim Thorpe venne privato delle medaglie d’oro del pentathlon e del decathlon per aver ramazzato qualche dollaro giocando a baseball, ma non risulta abbia mosso un dito per dare una mano al magnifico pellerossa. Inutile sottolineare che, se una macchina del tempo lo riportasse in vita, avrebbe difficoltà a riconoscere la creatura che riportò in scena 118 anni fa, oggi governata da un potentissimo consiglio di amministrazione, disposta a far visita a regimi di ogni tipo in nome di nuove frontiere marchiate dai miracolosi cinque cerchi che portano pace e fratellanza tra i popoli.
In realtà i Giochi erano molto cambiati anche durante la vita del barone, morto nel ’37, un anno dopo una delle edizioni più controverse: magnifica organizzazione, fantastici risultati, pubblico strabocchevole, ambiente plumbeo opportunamente dissimulato. La Germania era così moderna, così efficiente da strappare l’entusiasmo a un giovane dirigente americano mandato in avanscoperta: era Avery Brundage che più tardi sarebbe salito in cima al Cio e avrebbe stabilito che i Giochi dovevano andare avanti anche dopo le stragi di Connollystrasse e di Furstenfeldbruck.
A de Coubertin, demiurgo e arbitro di molte esistenze, di molti destini, di molte storie e del primo derby parigino tra Stade Francais e Racing, deve andare riconoscenza. Era un privilegiato, un idealista, apparteneva a un’altra epoca ed era senza dubbio meglio di molti di quelli che hanno preso il suo posto. Se i vecchi sioux hanno voluto che i loro stanchi cuori fossero seppelliti a Wounded Knee, lui ha voluto che il suo finisse sotto il sole e tra gli ulivi di Olimpia. Esemplare sino all’ultimo.
Giorgio Cimbrico
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