Una storia al giorno
16 Gennaio 201416 gennaio. Ron Clarke iniziò il suo memorabile 1965 nell’estate australe di Hobart, Tasmania, la grande isola ricca di fitte foreste, separata di un braccio di mare dallo stato di Victoria, e lo fece con un record del mondo centrato con le modalità preferite dall’australiano maestro assoluto del ritmo: più che una gara, un’esibizione, una lezione di andatura, con il secondo, Anthony Cook, appena passato alla campana quando Ron stava arrivando sul traguardo in 13’34”8, l’unghia di due decimi di progresso sul limite che Vladimir Kuts aveva centrato dell’ottobre 1957, in un festante e affollato Olimpico romano che iniziava a sentire profumo di Giochi.
I tempi intermedi sono altrettante cartine al tornasole delle attitudini del’aussie, una sequela di 2’43” e 2’44”, con ultimo chilometro appena al di sotto dei 2’40”. L’acuto di Hobart s trasformò nel prologo di un lungo tour europeo per cui, almeno una volta, val la pena usare l’inflazionato aggettivo di straordinario: 18 competizioni, 12 record del mondo su chilometri e miglia assortiti. Gemma assoluta della corona, lo stordente 27’39”4 di Oslo, con 36” di progresso, prima demolitrice discesa sotto la barriera dei 28’. Sui 5000 si sarebbe spinto, l’anno dopo, sino a un 13’16”6 di sostanza ancora quasi contemporanea.
Clarke veniva da un famiglia sportiva – il padre e il fratello erano stati giocatori di football australiano in uno dei club più antichi e illustri, l’Essendon di Melbourne – e aveva avuto la sua via di Damasco nel ’56 quando, 19enne, era stato scelto come ultimo tedoforo dei Giochi ospitati nella sua città, i primi in Oceania, ma quel fuoco che aveva acceso in quello che gli anglosassoni chiamano “calderone” non gli entrò mai nelle fibre: accanto all’imponente collezione di record mondiali figura uno smilzo e deludente raccolto di medaglie: un bronzo olimpico su 10000 a Tokyo ‘64, quattro secondi posti, tra il ’62 e il ’70, ai Giochi del Commonwealth. L’immagine più drammatica è legata a Mexico ’68: Ron steso sull’erba, con una maschera ad ossigeno a nascondergli il volto disfatto dalla fatica, deformato dall’asfissia. Gli africani, implacabili nel cambiamento di ritmo, furono i carnefici del canguro, maestro delle alte velocità di crociera, obbligandolo ad occupare nella storia il ruolo di domatore di lancette, mai di avversari.
Giorgio Cimbrico
SEGUICI SU: Twitter: @atleticaitalia | Facebook: www.facebook.com/fidal.it
Condividi con | Tweet |
|
Seguici su: |