Locatelli, una vita per l'atletica
27 Novembre 2019Un vulcano come tecnico, un bagaglio impressionante di conoscenza: la novità e la ricerca erano le sue molle. Ha contribuito allo sviluppo dell'atletica in Africa. Il ritratto dell'ex dt azzurro
di Giorgio Cimbrico
Elio Locatelli era così vivo che sembra impossibile sia morto. Era un amico, era un vulcano e il passare degli anni non aveva fatto abbassare la temperatura del suo ardore, lo srotolarsi delle sue idee, l’accumularsi dei suoi progetti, la sua forza dialettica che assomigliava a quel che era, un torrente di primavera, il dinamismo che l’ha accompagnato sino al penultimo giorno: da Abano a Montecarlo “per farmi dare un’occhiata”, aveva detto a Antonio La Torre, salendo in macchina, fissando un prossimo impegno, un altro appuntamento.
Primo incontro, all’Antistadio di Torino, quasi cinquant’anni fa: aveva smesso con il pattinaggio di velocità, allenava lunghiste e di lì a poco avrebbe convocato un amico, Carmelo Bosco (un altro che se n’è andato) che aveva inventato una rivoluzionaria piezoelettrica che misurava la velocità d’entrata, la forza impressa allo stacco. La novità, la ricerca erano le sue molle: lo spingevano, lo eccitavano. Elio andava di corsa, aveva sempre obiettivi e se, per caso, non ne vedeva all’orizzonte, se li creava, dava forma, li realizzava. Conosceva una costellazione di colleghi, da ovest a est, promuoveva incontri, seminari, corsi di specializzazione e calava tutto nel reale del campo d’allenamento. Mai stato un teorico, un tecnico da tavolino.
Sanguigno, pronto alla battuta, anche salace, anche spericolata, un piemontese con poca riservatezza, amante più del bianco delle sue parti, l’Arneis, che dei rossi nobili dell’Albese, dove era nato nel ’43, in piena saga partigiana che sarebbe stata raccontata da un suo conterraneo, Beppe Fenoglio, spazzato via dallo stesso male che non perdona.
Elio allenatore, e insegnante all’Isef, diventò commissario tecnico nell’87 e governò in uno dei periodi più fruttuosi: gli Europei del ’90 e del ’94 rimangono solidi architravi. Aveva già alle spalle un paio di Olimpiadi (a Los Angeles, idealmente sul podio con Giovanni Evangelisti), oltre alle due che aveva vissuto sul ghiaccio tirato a lucido delle prove di sprint: alla fine sarebbero diventate una dozzina.
Alla ricerca di nuovi mondi, accettò di trasformarsi in uno dei protagonisti del programma di sviluppo della IAAF, scelse l’Africa, fissò il suo quartiere generale a Dakar e da lì si mosse per guardare, valutare, ripulire qualche diamante grezzo. Fu uno dei primi a vedere in azione Caster Semenya, in un campionato africano under 20, alle Mauritius. Ne rimane sorpreso, sbigottito e agli amici anticipò il risultato del Mondiale berlinese del 2009.
Nessuno ha mai capito come riuscisse a vivere nel turbine che creava attorno a sé.
Aveva avuto l’idea di una pista in quota al Sestriere, l’aveva realizzata e stava battendosi per ricreare l’atmosfera di quelle ventose, spesso fredde mattinate d’agosto degli anni Novanta. Dopo aver interpretato il ruolo di anima tecnica e organizzativa dei Giochi torinesi del 2006 passò alla programmazione olimpica del CONI, sino a un ritorno, trent’anni dopo il primo incarico, al ruolo di commissario tecnico: la sua esperienza, il suo entusiasmo dovevano essere gli strumenti per riportare a quel tempo florido che aveva vissuto e che aveva fatto vivere. La nuova destinazione, alla cura dell’alto livello, era la conseguenza naturale per chi, come lui, aveva un bagaglio impressionante di conoscenza, un contagioso desiderio di progresso.
E così, quando un vecchio amico ha telefonato, è stato naturale concedersi lacrime. L’incrociarsi delle chiamate successive è stato difficoltoso: non era facile parlare mentre era terribilmente facile ricordarlo al volante, sul campo, con mezzo toscano in bocca, a tavola a Mosca con un cameriere che non voleva servire la birra, a Torino mentre parlava in piemontese fitto con Nebiolo. Fotogrammi sparsi di un amico che se n’è andato.
Sta piangendo anche Sandro Giovannelli, al suo fianco in FIDAL e alla IAAF: “Mi aveva detto: fra tre giorni vengo a Rieti, ceniamo e poi io scappo subito”. Aveva sempre qualcosa da fare ed è scappato via di fretta, evitando la sofferenza sua, lasciandoci la nostra. Addio, vecchio amico.
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