Mennea infinito: 200 metri lunghi 40 anni
26 Luglio 2020di Giorgio Cimbrico
Per rivedere, non sono necessarie le immagini. Bastano le nove parole in crescendo di Paolo Rosi. “Recupera, recupera, recupera, recupera, recupera”. E “Ha vinto, ha vinto”. Le immagini sono insidiose perché dopo quarant’anni possono creare dubbi, interrogativi, piccoli terrori anche se quei passi tormentosi ed estatici sono stati visti, rivisti: ce la farà? Sì, ce la fa, ce l’ha fatta anche stavolta. Un dito verso il cielo e finalmente un sorriso trasognato: Pietro Mennea campione olimpico dei 200, vent’anni dopo Livio Berruti, in un’arrampicata lontana da quel volo lieve, da quella curva disegnata con un pennello fine, da quelle piccole sofferenze accusate negli ultimi metri. Pietro corse disperato, febbrile, nel solito match che ingaggiava con il mondo e con se stesso. E spesso l’avversario più duro era il secondo.
Meno di un anno prima, era il 5 agosto 1979, seconda giornata di una magnifica finale di Coppa Europa al Comunale di Torino, Pietro incontrò Allan Wells sul terreno suo, non su quello dello scozzese, e perse. Può esser stata una delle ombre che gli facevano compagnia in quei giorni moscoviti? Wells era un potente scattista ma poteva esser pericoloso anche sulla distanza dilatata. Esisteva qualche prova e Torino era stata una cartina al tornasole.
In un tempo che la memoria rende ancora vivido ma che la macchina del tempo registra lontano, anche nei formati, nei regolamenti, il torneo della velocità, secca o prolungata, prevedeva quattro turni, anche in questi Giochi colpiti dal boicottaggio degli Usa e del blocco dei governi occidentali. Il 24 luglio Pietro corse una tranquilla batteria in 10.56 e premette sull’acceleratore nei quarti: 10.27. Il giorno dopo, macchinoso e contratto, finì sesto nella semifinale vinta dal bulgaro Petar Petrov. Tempo di Pietro, 10.58. Nessun altro commento. A quel punto non restava che diventare spettatore della finale che Wells risolse con un potente tuffo sull’agile cubano Silvio Leonard. Da Roma 1960 non si registrava per il campione olimpico (e in questo caso anche per il vice) una prestazione così “normale”, 10.25, ma le considerazioni statistiche vennero annegate dall’entusiasmo dei britannici che tornavano a conquistare l’oro che era stato di Harold Abrahams nel 1924 sulla terra rossa di Colombes.
Il 27 luglio prese il via la seconda parte della disfida.
Pietro vinse batteria e quarti in 21.26 e 20.60, sostenuto da un vento appena sotto la norma. Carlo Vittori lo spiava, misurando la carica che tornava ad animarlo. il giorno dopo la semifinale si risolse in un volata all’apparenza senza dispendio di energia. Per Mennea 20.70 era un buon allungo.
La finale viene accolta con il disappunto (o l’ira) di chi, lui, Pietro, constata che gli hanno riservato l’ottava corsia. Per lui, terzo a Monaco a vent’anni, dietro a Valeri Borzov e a Larry Black, quarto a Montreal nel giorno felice di Donald Quarrie precipitando in una cupa disperazione, in una tempesta del dubbio, è l’approdo finale (non sarà così, ma Helsinki ’83 è ancora nella culla del futuro…), è l’assalto possibile. E sin dai primi appoggi l’ingegnere navale Wells lo sbatacchia come un albero mal fissato sulla tolda.
Non funziona niente in quella curva: un’azione di braccia scomposta, un’andatura beccheggiante, la testa sprofondata nelle spalle, il mento come una prua che non sa fendere le onde. Wells davanti, Mennea ottavo. Sesto, quinto, in preda a un vortice di forza, di rabbia che, improvviso, lo investe, lo spinge. Piomba sullo scozzese in quegli scacchi che segnano l’approssimarsi della linea, passa, per due centesimi, 20.19 a 20.21, alza l’indice al cielo. È allora che qualcuno va a chiamare Primo Nebiolo che, dice la leggenda, non aveva abbastanza cuore per guardare e si era nascosto in una cabina telefonica e sfogliava l’elenco di Mosca, in cirillico, aspettando il boato e il verdetto. Il record del mondo era stato una passeggiata. Quell’Olimpiade non sarebbe finita lì, impreziosita anche dal bronzo in staffetta con la 4x400 insieme a Stefano Malinverni, Mauro Zuliani e Roberto Tozzi.
Gianni Brera scrisse di aver avuto la fortuna di assistere a due miracoli: quello di un abatino pieno di grazia e quello donato da chi portava addosso la travagliata struttura, il dramma genetico di un intero popolo e della sua storia. Pietro si sbloccò: 20.01 al Golden Gala neopartorito, una settimana dopo, e a seguire una serie di cavalcate in cui spesso il fotofinish non inquadrava chi, troppo lontano, finiva alle sue spalle. A Oriente e a Occidente la Freccia del Sud non mancava un bersaglio.
SEGUICI SU: Instagram @atleticaitaliana | Twitter @atleticaitalia | Facebook www.facebook.com/fidal.it
Condividi con | Tweet |
|
Seguici su: |