Una storia al giorno
06 Novembre 20136 novembre. E’ il giorno del ’62 in cui il consiglio dell’Onu approva la risoluzione 1761: l’invito ai paesi aderenti a sospendere contatti politici e economici con il Sudafrica. Non si frequenta con chi nega i diritti più elementari, con chi applica l’apartheid, con chi sequestra, imprigiona, tortura, fa sparire, spara sulla folla. Anche lo sport rientra in questo scenario anche se, spesso in ambito ovale, il muro eretto attorno al paese dell’apartheid mostrerà crepe che porteranno al boicottaggio dei paesi africani a Montreal ’76.
Poco più di due anni prima, a Roma, un atleta con la maglia verde scuro adorna di un’antilope saltante (l springbok) aveva entusiasmato il pubblico dell’Olimpico correndo con la stessa furia dell’ala lanciata verso la meta: Malcolm Spence, che aveva subito nove iniezioni antidolorifiche, impresse alla finale dei 400 (la battaglia dei continenti dal momento che quattro su cinque erano rappresentati) un ritmo furibondo, pagò, non si arrese, riuscì a salvare la medaglia di bronzo, dietro Otis Davis e Carl Kaufmann che, primi, scesero sotto i 45”.
Dopo, cadde il buio, l’isolamento. Li evitò Marcello Fiasconaro grazie a un passaporto e un’italianità che non era una patina leggera, non li evitarono atleti che avrebbero potuto lasciare il segno e il primo che viene in mente è un compagno di allenamento di March, Danie Malan. Più tardi, radici britanniche permisero a Zola Budd, pur tra contestazioni accese, di calpestare a piedi nudi i prati e le piste di un mondo che ad altri era proibito. Erano gli anni in cui, davanti all’ambasciata sudafricana a Trafalgar Square, stazionava un presidio perenne.
La svolta avvenne con la liberazione di Mandela, con la presa di coscienza di de Klerk, boero ma non così intollerante come gli altri che l’avevano preceduto nel palazzo vittoriano sulla collina di Pretoria. E così, a quasi trent’anni da quella risoluzione votata al Palazzo di Vetro, i sudafricani tornarono ai Giochi e chi era a Montjuich non ha dimenticato in cosa si trasformò la finale dei 10000 quando Derartu Tulu attese sul traguardo Elana Mayer e insieme, mano nella mano, interpretarono un giro d’onore in cui l’Africa etiope, sempre fieramente indipendente a parte la breve parentesi di conquista e brutalità italiana, tornava a riunirsi con l’Africa bianca di antiche migrazioni olandesi e ugonotte. Era una prima tappa. Quella definitiva sarebbe stata scritta quattro anni dopo ad Atlanta da Josia Thugwane, piccolo, povero, un po’ storto, il primo nero sudafricano a salire su un podio che lui non sapeva neanche cosa fosse. Se ne stava andando, lo chiamarono. “Ehi, cosa fai? C’è la premiazione”. Aveva vinto la maratona olimpica e nelle township fecero festa.
Giorgio Cimbrico
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