Una storia al giorno
30 Novembre 201330 novembre. Quando morì, il 30 novembre 1999, all’età di 40 anni, venne naturale commemorarlo come un re (l’ultimo sovrano dello stile ventrale di cui aveva promosso una breve, luminosa restaurazione) e come un eroe mitologico che aveva avvicinato troppo le ali al sole. Vladimir Yashchenko, detto Volodja, aveva tutto: bellezza, simpatia, talento. Al mondo gli dei lo concessero poco: bastò per assicurargli un posto nella leggenda, nel ricordo di chi ebbe in sorte di vedere all’opera il cosacco di Zaporozje che avrebbe meritato di cavalcare fianco a fianco del compaesano Taras Bulba: quella cavalcata avrebbe fatto strage tra i cuori delle ragazze accorse sul ciglio della strada, nella polvere alzata dagli zoccoli, tra i canti guerrieri.
Volodja riprese dove Brumel aveva interrotto, un incontro tra Urss e Usa: nel ’63, a Mosca, il siberiano di Tolbukino con 11 salti si era portato a 2,28 e per primo aveva portato la minaccia al mistero dei 2,30; nel ’77 a Richmond, Virginia, il 18enne ucraino biondo e gentile come il Manfredi dantesco ebbe bisogno di otto tentativi per valicare 2,33 arrendendosi davanti a 2,35. In quei 14 anni Brumel era stato superato da due altri ventralisti, ufficiosamente dal cinese Ni Chihchin, ufficialmente dalla meteora americana Pat Matzdorf, ma era stata soprattutto la rivoluzione fosburyana a mutare lo scenario, a rendere possibili lunghe parabole verso l’alto, il sempre più alto, che parevano negate agli arrampicatori del vecchio stile. Erano stati gli anni di Dwight Stones che in tre tappe si era spinto a 2,32.
Per Volodja, che resuscitò una bellezza antica, tutto sembrava facile, dolce. Orfeo cancellava la ferinità dagli animali con la sua musica, lui procurava gioia con appoggi che risuonavano ma non riuscivano a esser violenti. Vennero distintamente avvertiti nel Palasport che non c’è più, quello di Piazzale San Siro, la sera del 12 marzo ’78 quando salì a 2,35. Luciano Fracchia, un vecchio amico che continua a filmarlo nei Campi Elisi, fermò nei suoi fotogrammi un’elevazione con quello che viene grossolanamente definito come “cavallo” a 2,50, forse a 2,52. Prima di Milano, era andato a esibirsi al Madison Square Garden e il piccolo Franklyn Jacobs, primatista mondiale di differenziale tra statura e altezza superata, era andato a sfidarlo in preda a una sbornia di adrenalina : “Ho muscoli duri come l’acciaio. Ti batto, ti batto”. E Volodja, con il suo inglese lento e morbido, con un sorriso angelico e diabolico: “Non ci riesci, sei troppo piccolo”.
Il tempo stava esaurendosi e nessuno poteva saperlo: 16 giugno ’78, Tbilisi, Georgia, Coppa della Pravda. Pravda in russo significa verità. E la verità era che Volodja spinse più in alto i suoi confini: 2,34. I due vertici, indoor e outdoor, toccati in tre mesi rimangono le più alte quote scavalcate da chi affronta un’asticella di petto, non rivolgendo il dorso. In una Praga autunnale conquistò la sua unica corona all’aperto, con un 2,30 che ormai, con lui di mezzo, sembrava routine. Poi iniziò il buio: noie al ginocchio sinistro, sino al cedimento strutturale dei legamenti, una serie di operazioni, il tentativo – fallito - di conquistare la selezione per i Giochi di Mosca, un’ultima patetica apparizione, la discesa agli inferi. Non avesse incontrato il diavolo nella bottiglia, Volodja sarebbe oggi un magnifico 54enne che, come don Giovanni, dovrebbe aggiornare il catalogo delle sue belle.
Giorgio Cimbrico
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