Una storia al giorno

01 Dicembre 2013

Personaggi e vicende dell'atletica di sempre

1 dicembre. Nel caldo giorno dell’estate australe di 57 anni fa Alain Mimoun era sicuro che questa sarebbe stata la volta buona. Motivi: gli era toccato il 13 e già quel quadratino di cotone suonava augurale. E poi c’era un altro numero, il 28: nel 1900 la maratona olimpica era stata vinta da un francese, Michel Theato; nel 1928 da un altro francese, Boughera el Ouafi, nordafricano come Alain. Era il 1956: la scadenza era perfetta. Ma Alain non si affidava solo a cifre magiche: sapeva che il suo vecchio amico e implacabile giustiziere non era più quello di quattro anni prima. Emil Zatopek, l’uomo della tripletta intoccabile, aveva scelto la maratona come un’ultima sfida.

Dell’uomo cavallo, della locomotiva ceka, Mimoun era buon amico, mai scosso da animosità nei confronti di chi tre volte ai Giochi e due volte agli Europei se l’era lasciato alle spalle, materiale sufficiente per meritargli una delle corone meno ambite, quella di eterno secondo. Che tra i due ci fosse vero affetto, risultò evidente a chi si avventurò nell’85 sino a Hiroshima per la Coppa del Mondo di maratona. Tra gli ospiti illustri, c’era anche questa strana coppia: Emil era più posato, riflessivo; Alain vulcanico, pronto a riversare addosso un fiume e una piacevole tempesta di aneddoti. E così raccontò della nascita nell’Algeria francese, dell’arruolamento in un battaglione coloniale, dell’atletica conosciuta in divisa, del battesimo del fuoco, sul confine tra Belgio e Francia nella primavera del ‘40, della Campagna d’Italia, quando finì nell’inferno di Montecassino, la lunga battaglia delle Nazioni, la Stalingrado del sud. Colpito dalle schegge di una mina, stava per perdere una gamba. “Mi venne in mente mentre correvo sulle strade di Melbourne e capii che quel giorno un aiuto divino mi era venuto in soccorso”. A chi gli chiedeva un autografo, Mimoun faceva seguire al nome e al cognome una piccola frase, sincera e piena di fede: J’espere en Dieu.

Quel giorno, il suo giorno, Alain andò via da solo poco dopo la boa di metà gara, guadagnò quasi un minuto sul gruppetto tirato dallo jugoslavo (croato) Franjo Mihalic e dal finlandese Velkko Karvonen. Emil iniziava a perder terreno. Nella solitudine del maratoneta, ebbe il tempo di pensare alla sua vita, di auscultarsi e di avvertire che il serbatoio stava svuotandosi, di confezionarsi un rustico copricapo con un fazzoletto, di lanciare un bacio a una biondina che lo incitava lungo quell’interminabile e bollente avenue che portava allo stadio olimpico, dove lo attendevano in 110.000. “Quando entrai, avvertii l’esplosione di una bomba atomica”. La sua fuga per la vittoria era finita. Non gli rimase che rimanere sul traguardo e attendere Emil, settimo a 4’ abbondanti a lui. "Non ti congratuli con il vincitore? Sono io". E allora Emil si spogliò della fatica, mi abbracciò e quel gesto è stato più prezioso della medaglia d’oro che stavano per darmi”, raccontava e continuava a commuoversi Alain. E Emil, al suo fianco, assentiva: era andata proprio così perché l’amicizia si nutre di momenti come questi, scacciando la rabbia, invitando l‘invidia a prendere un’altra strada.

Mimoun era di una vitalità eccezionale, tipica di chi ha visto la morte avvicinarsi e mollare la presa, e se i numeri possono trasmettere significati che non siano freddamente statistici, non resta che citare il suo tempo sui 42 km a 51 anni, 2h34’. Ai Mondiali di Parigi, a 82 anni compiuti, corse un giro dello Stade de France con la vivacità di un indomabile ragazzo e nessuno schernì l’esibizione di quel piccolo, vecchio fusto dai baffetti sottili. Sembrava eterno, Alain, e se n’è andato a giugno, in fondo a tutte le storie che aveva saputo raccontare. Aveva sempre contato su Dio che, riconoscente, lo aveva ascoltato a lungo.

Giorgio Cimbrico

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