La storia degli Europei: Roma 1974
12 Maggio 2014di Giorgio Cimbrico
Riannodando l’Olimpico – cambiato - che tra meno di quattro settimane ospiterà il Golden Gala e la scadenza continentale di agosto, prima affiora e subito dopo viene fuori il legame forte che mi unisce a Roma ’74. Perché è stato il primo Europeo di una lunga serie in anni di pellegrinaggi e perché, molto banale dirlo, coincise con uno scenario – gare, protagonisti, pubblico, spirito – difficile da dimenticare. Anzi, impossibile. Perché – terzo motivo - quarant’anni fa i Campionati Europei erano il secondo appuntamento più importante per un atleta nato tra Lisbona e Vladivostok, tra Rovaniemi e Atene. Magari anche tra Rivoli Veronese e Barletta. Se ricordare significa mettere in fila risultati, dimostrare di avere una memoria ferrea, non intaccata dal tempo o dalle salve di quello che uno scrittore inglese chiama l’ammiraglio Alzheimer, meglio far finta di aver smarrito queste capacità ordinative e affidarsi ai flutti e ai flussi, alle immagini che continuano a non sbiadire, a certi improvvisi dell’anima di cui quattro decenni non hanno attenuato la gradazione.
Il Golden Gala oggi è - purtroppo - intitolato a Pietro Mennea che proprio in quei giorni lontani si mise in testa la prima corona e avesse trovato la forza dei nervi distesi avrebbe anticipato quel che combinò quattro anni a Praga, sulla fredda collina di Strahov, non lontano da dove l’Imperatore aveva riunito i più famosi e potenti alchimisti d’Europa. Come si dice in gergo, Valeri Borzov, l’ultimo bianco a far doppietta olimpica, ne aveva più poca ma era uno straordinario giocatore di poker, una faccia di pietra che, prima della partenza dei 100, scrutò in volto gli avversari, uno a uno, e decise che con una doppia coppia poteva prendersi il piatto. Traducendo, 10”27 lui (che in batteria si era esibito nella partenza su tre appoggi), gli altri a meno di un metro, in una tonnara da cui seppe districarsi Pietro. Traducendo anche in questo caso, 10”34, un centesimo davanti a Klaus Dieter Bieler, tedesco ovest di gran fisico e di bell’aspetto. Qualche giorno dopo, preso atto della prevista rinuncia di Valeri ai 200, Pietro iniziò a temere il tedesco (ovest anche lui) Manfred Ommer, un piccolotto dall’andatura frenetica. Ne dispose abbastanza facilmente (20”60 a 20”76) e tutti noi, calati in un caldo appiccicoso da sudest asiatico, sentimmo un soffio d’aria fresca.
In quei giorni la scena fu calcata da un incrocio di generazioni: Irena Szewinska che doma due volte la massiccia tedesca democratica Renate Stecher; siepi di bellezza assoluta con quel buonanima di Bronislaw Malinowski e Anders Garderud; Brendan Foster che assesta distacchi da cronoprologo a Manfred Kuschmann e a Lasse Viren in fondo a un 5000 corso in un clima impossibile e chiuso in 13’17” (il record del mondo era 13’13” di Emiel Puttemans); la curva che tiene lezioni di inciviltà pensando di dare una mano a Sara Simeoni (terza e primo podio di spessore assoluto) ma Rosemarie Witschas non ne è toccata; il volto faunesco, incorniciato da una rada barbetta, di un 19enne Steve Ovett nel giorno della gloria di Luciano Susanj e del sacrificio disperato di Marcello Fiasconaro; il tifo infernale dei finlandesi per Hannu Siitonen che spara subito a ridosso dei 90 metri; la vittoria schiacciante di Viktor Saneneyc 55 centimetri al secondo, il lungo romeno Carol Corbu; i record mondiali di Ruth Fuchs e delle ragazze della 4x100, tutte con il martello e il compasso sulla canottiera blu dai bordi bianchi (i body e i bikini da gara non esistevano ancora); la gioia di Pippo Cindolo, dalle basette degne di un notaio vittoriano; la tecnica sublime di Guy Drut e di Annelie Ehrhardt che aveva gli occhi della regina Nefertari. Tutto è sempre qui accanto, in un eterno presente.
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