La storia degli Europei: Torino 1934

20 Maggio 2014

A poco più di 80 giorni dall'appuntamento di Zurigo 2014 (12-17 agosto), la storia e i protagonisti della prima rassegna continentale

di Giorgio Cimbrico

Dopo il salto all’indietro di quarant’anni per Roma ’74 si replica, prendendo il via da quel punto per ritrovarsi, con un tuffo bis di analoga consistenza temporale, a Torino nel 1934, davanti a uno stadio nuovo quasi di zecca, costruito alla velocità della luce, in 365 giorni, forse un paio di meno, e intitolato a chi faceva viaggiare tutto in orario, fatalmente anche gli appuntamenti con la storia: il cavalier Benito Mussolini, che nello status onorifico rimase sino al momento della sua destituzione e del suo arresto.

Il Mussolini - poi Comunale, ora, dopo profonde mutazioni, Olimpico – era nuovo “quasi” di zecca per aver ospitato un anno prima i Giochi Mondiali Universitari, un anticipo di Universiade atletica (non è noto se un decenne Primo Nebiolo abbia assistito alle gare…) che rappresentò anche il primo appuntamento internazionale su suolo italiano, un buon modo per introdurre la nascita dei Campionati Europei che, sino a quel momento, avevano vissuto un sorta di puerizia sotto la veste di edizioni open dei campionati dell’Athletic Association ai quali, magnanimamente, i maestri e rifondatori consentivano la partecipazione a “continentali” con solidi meriti.

In ogni caso, i britannici non presentarono a Torino un solo atleta: erano i tempi in cui, sia nel calcio che nell’atletica, si… bastavano.

Non c’è dubbio che il momento più alto dei tre giorni di competizioni esclusivamente maschili venne dal primo pomeriggio di gare, attorno alle 17, quando Matti Jarvinen andò a piantare il giavellotto in legno a 76,66 dopo che al primo tentativo il lancio, nullo, era stato stimato tra i 77 e i 78 metri. Era il decimo record del mondo dell’occhialuto finlandese classe 1909 e il primo e l’ultimo (a parte l’ufficioso 72,38 ottenuto a Stoccolma, nel ’30) ottenuto dal fuoriclasse di Tampere al di fuori dei confini di Suomi. Dalla cronologia del limite mondiale Matti si sarebbe accomiatato due anni dopo, a Helsinki, sparando a 77,23 che, con il nuovo sistema radiale di misurazione, sarebbe equivalso a un mostruoso 81,26.

E’ noto a tutti gli amanti dell’atletica che, al momento di erigere lo Stadio Olimpico di Helsinki (completato nel ’38 ma, per cause belliche, utilizzato solo per i Giochi del ’52), i progettisti Yrjo Lindegren e Toivo Jantti decisero che l’elegante torre in stile razionalista sarebbe stata alta 72,71, quanto il lancio che aveva consegnato a Matti la medaglia d’oro a Los Angeles ‘32.

Si tratta senza alcun dubbio del più rilevante monumento dedicato a un campione, capace di distinguersi anche in altri campi: durante la guerra invernale contro i sovietici, nell’istmo di Carelia, Matti e l‘altro giavellottista Yrjo Nikkanen, assai esperti del gesto, istruivano le reclute nel corretto modo di lanciare granate contro l’invasore.

Le gesta di Jarvinen hanno allontanato dai giorni dell’infanzia torinese degli Europei. Tornare in tema significa dare un’occhiata al raccolto azzurro: Luigi Beccali diede seguito al successo olimpico domando l’ungherese Miklos Szabo che, a parità di tempo (1’52”), aveva strappato negli 800 il successo a chi, Mario Lanzi, iniziò in quel momento una carriera di magnifico piazzato. Vicino al bersaglio grosso andò anche il martellista modenese Fernando Vandelli, finito a 1,65 (50,34 a 48,69) dal finnico Ville Porhola. Raccontano gli anziani che Vandelli avesse una sintassi tecnica piuttosto semplice: “fas do premiliter (sta per preliminari…) e un gran brassà”. Aurelio Genghini, terzo nella maratona, e Ettore Rivolta, idem nella 50 km di marcia, completarono per parte azzurra un medagliere in cui trovarono posto molti campioni che già avevano Berlino nel mirino delle ambizioni. Un nome per tutti, Carl Ludwig Long. Per gli amici, Lutz.

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