Cento anni fa
28 Giugno 2014di Giorgio Cimbrico
28 giugno 1914, Sarajevo: gli spari, a segno, dello studente bosniaco Gavrilo Princip accendono la polveriera. Le cancellerie europee non controllano la situazione, partono le mobilitazioni e in una situazione del genere, come scrissero antichi storici che non seppero mai spiegare sino in fondo i nessi tra cause ed effetti, i cannoni finiscono per sparare da soli. E’ il gioco del domino che porta alla Grande Guerra.
Una settimana dopo l’attentato che costa la vita all’arciduca d’Austria – ed erede al trono imperiale – e alla moglie Sofia, l’associazione atletica organizza i suoi campionati a Stamford Bridge e Willie Applegarth è il protagonista e la stella (termine che a quel tempo non era contemplato) con il record del mondo dei 200 (con curva) portato a 21”1/5, traducibile in 21”2. L’anno dopo Applegarth evitò di finire in divisa: emigrò negli Stati Uniti, passò nei ranghi dell’atletica professionistica e giocò anche a calcio, in un primo tentativo di sbarco di uno sport che mai ha davvero saputo coinvolgere gli americani. Due anni prima Willie aveva fatto parte del quartetto che a Stoccolma aveva conquistato la medaglia d’oro nella staffetta veloce. Uno dei moschettieri britannici, lo scozzese Henry Maitland Macintosh, si trasformò in uno dei tanti tributi offerti dallo sport: arruolato negli Argyll and Sutherland Highlanders, cadde a 26 anni nella seconda battaglia della Somme, uno dei peggiori carnai architettati dagli stati maggiori che se ne stavano ben lontani dall’orrore delle trincee.
Ma più che di caduti – non c’è dubbio che uno dei più illustri sia stato Jean Bouin, piccolo marsigliese che vendette cara la pelle contro Hannes Kohlemainen nei 5000 di Stoccolma, per confezionare un’icona fotografica entrata di diritto nella storia dei Giochi, prima di sparire nel primo autunno di guerra – l’intento è di offrire un abbozzo di scenario dell’atletica affacciata sulla Grande Bufera, esattamente cento anni fa. La prima, commossa osservazione è che ci troviamo di fronte a campioni di sterminato valore. Sufficiente riflettere sul record mondiale di salto in lungo, in mano dal 1901 (e per vent’anni) all’irlandese Peter O’Connor, con il 7,61 realizzato n un meeting organizzato nella caserma dublinese della Royal Irish Constabulary, la polizia irlandese.
Gli irlandesi dettavano legge, nei salti in estensione ma non solo: nel 1911, al Celtic Park di New York, Daniel Ahearn aveva portato il record del mondo di salto triplo a 15,52 (avrebbe tenuto tredici anni) e sempre a New York, all’annuale festival dei vigili del fuoco, nel ’13, Pat “Paddy” Ryan, originario della contea di Limerick (ovviamente gli è stato eretto un monumento), aveva spedito il martello a 57,77, per un limite che sarebbe rimasto al top per quasi un quarto di secolo. Altre cifre, altri record in corso legale in quei giorni drammatici: 10”3/5 nei 100 di Donald Lippincott, 48”2 nei 400 di Charles Reidpath, 1’51”9 negli 800 di Ted Meredith, 3’55”4/5 di Abel Kiviat nei 1500, 2,01 nel salto in alto di Ed Beeson che concesse solo due anni di regno allo storico 2,00 di George Horine.
Cominciavano ad affacciarsi anche le donne: nel ’12, 12”0 dell’americana Mary Morgan nelle 100 yards e un anno dopo 13”1 sui 100 della russa, non ancora sovietica, Nina Popova in una manifestazione, a Kiev, che ricevette l’impegnativa etichetta di Prima Olimpiade Russa. I primi salti verso il cielo portano il nome di Margaret Belasco, 1,47 a Ramsgate, negli annuali Giochi per signorine che vennero subito dopo i campionati femminili del Kent. Era il giugno del ’14 e il sipario stava per essere tirato. L’Europa e il mondo si avviavano verso il buio.
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