I 40 anni di El Guerrouj il Celestiale
14 Settembre 2014di Giorgio Cimbrico
14 settembre, i suoi primi quarant’anni. Forse un paio di chili in più, una barba fitta che gli regala l’aspetto di un filosofo: Hicham El Guerrouj il Celestiale. Come avrebbe scritto Karen Blixen, ci è stato dato, lo abbiamo amato, abbiamo vissuto a qualche decina di metri da lui momenti che hanno coinvolto, commosso, eccitato. E così Hicham il pio, il mite, degno di una poesia di Omar Kayan, di una miniatura di scuola persiana, diventa il simbolo di un’età attraversata, interpretata, smaltata, coperta di pietre preziose.
Esistono e vengono conservati attimi più eloquenti di qualsiasi raccolta di dati, di ogni collezione di medaglie, di ogni imponente corpus di prestazioni. Nel caso di Hicham, la scelta cade su quel giorno sivigliano del bollente agosto del 1999: inizia al mattino, quando la gente sfida il primo caldo, violento, africano, per mettersi in coda, comprare gli ultimi biglietti per la corrida promessa dalla serata. Vengono portati tendoni: a mezzogiorno, 40°. Aria immobile, secca. Ogni isola d’ombra, un’oasi. Al parcheggio dei taxi, vicino alla Cattedrale e all’Archivio delle Indie, autisti che sfogliano tabloid: Estevez, Cacho e Diaz, calati nelle vesti di luce dei toreri, impugnano spade e banderillas, Li attende un novillo (un giovane e agile toro) che viene dal’Africa: Berkane non è lontana da quella porzione di Marocco che sui francobolli si chiamava Marruecos Espanol. A Siviglia la plaza de toros non è monumentale come a Barcellona, come a Madrid. E’ piccola, elegante, sempre ben rinfrescata a calce, e ha una cappella con la Vergine che promette aiuto a chi va a sfidar la sorte: non è noto se i tre matador, nel breve viaggio verso lo Stadio Olimpico della Cartuja, sulla vasta isola contornata dal Guadalquivir, si fermino per una preghiera, per una benedizione. Sulla tauromachia come metafora dell’esistenza Hemingway ha scritto “Un’estate pericolosa”: la triade di Spagna sa che quel che dovranno affrontare ricade in questa sfera. Incruenta ma definitiva.
Quando la salute e la sorte gli sono state al fianco, El Guerrouj ha saputo offrire un prodotto di sintesi difficile da miscelare: la calligrafia naturale capace di sovrapporsi all’efficacia, diventare tessuto prezioso per cucire l’interpretazione perfetta. Hicham non teme gli spagnoli, sa che si libererà presto dalle panie di un loro tentativo di gioco di squadra. Lui teme Noah Ngeny, il kenyano che aveva avuto una parte importante, come scanditore di ritmo, nel 3’26”00 del ’98 ma che un anno dopo, ancora all’Olimpico romano, aveva finito per interpretare il ruolo di strenuo avversario nella rincorsa – riuscita – al record mondiale del miglio, la seconda gemma che El Guerrouj incastonò nella corona. E’ banale osservare che gare che consegnano titoli non vengano corse a rotta di collo ma ricadano nel repertorio della “drole de guerre”, della guerra non guerreggiata, destinata ad accendersi violenta solo al suono della campana. Siviglia è una meravigliosa eccezione: il ritmo alto diventa spietato sotto le spinte eleganti di Hicham che semina gli spagnoli ma, senza neppur girare ll capo al’indietro, sa, per il risuonar dei passi, che Ngeny è ancora lì, nella sua ombra. Ed è qui, dopo aver chiesto e ottenuto aiuto da chi è nel cielo e da chi vi è assurto, che viene confezionato il capolavoro dell’1’50”2 nell’800 finale, del 53”8 sull’ultima tornata. Il 3’27”65 vincente è, all’epoca, il quinto tempo della storia, il primo – anche tuttora – ottenuto in un giorno in cui era in palio un titolo globale. Ngeny cade da invitto in 3’28”73, Estevez salva l’onore nazionale e una medaglia poco al di là dei 3’30”.
La stessa formidabile combinazione di tattica, strategia e capacità di ritmo elevata ad arte saranno, cinque anni dopo, alla base dell’accoppiata ateniese, quando Bernard Lagat (non ancora americano) si rivelò duro a morire, quando Kenenisa Bekele venne costretto ad assistere al progressivo inumidimento della sua polvere da sparo. Hicham, l’uomo dei Mondiali, aveva con l’Olimpiade, più che un conto da saldare, un destino da scrivere: caduto ad Atlanta, nel momento dell’attacco di Morceli, tormentato da una salute malferma a Sydney (ne seppe approfittare proprio Ngeny), non poteva pensare di andarsene senza aver lasciato il segno. Ne lasciò due, con gli occhi gonfi di lacrime e l’Equipe gli dedicò un’intera prima pagina con una foto che pare un quadro storico, una Ronda di Notte dell’atletica, e un titolo che sembrava banale ed era meraviglioso: “El Guerrouj c’est grand”. Come Allah. Ed è personale motivo di orgoglio ricordare che quando Hicham annunciò di voler rincorrere la doppietta 1500-5000, toccò a chi scrive osservare che ottant’anni prima il tentativo era andato a buon fine quando in un paio d’ore Paavo Nurmi aveva scritto la storia. Hicham disse di non saperlo e ringraziò per l’informazione.
Hicham ha dato l’addio nel 2006. Guida la storia dei 1500 e del miglio, è il kaid dei 2000 raramente corsi, è stato l’unico, con 7’23”09, a insidiare il terrificante 7’20”67 reatino di Daniel Komen e così si spiega il suo secondo posto nella lista all time dei 3000. Per quattro volte consecutive, ad Atene, Siviglia, Edmonton e Parigi, dal ’97 al 2003, è stato campione mondiale dei 1500 e sulla pista che dona l’iride ha raccolto anche due secondi posti: all’esordio, nel ’95, sui 1500, e sui 5000 allo Stade de France, nel 2003, quando l’operazione Atene era giunta a un momento di prima, importante verifica. Ma su tutte queste meraviglie cala un’ala d’ombra quando un vecchio ricordo si fa largo: è quello di un acerbo purosangue che scende sulla pista di Parigi Bercy, Mondiali indoor ‘95, in una mattinata di batterie. “Magnifico ragazzo. Come si chiama?”. “Hicham El Guerrouj”. Nome nobile, malgrado il padre fosse il gestore di una modesta trattoria. Avrebbe occupato molti piacevoli e commossi giorni di chi osserva, annota e prova a condire con parole quanto gli viene offerto. Con Hicham, grazie a Hicham, tutto è stato facile.
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