L'atletica e il suo gergo
20 Settembre 2014di Giorgio Cimbrico
Avere un gergo significa essere un po’ snob: l’atletica ha il suo gergo. Proviamo a compilare un piccolo vocabolario chiedendo aiuto ai lettori e agli aficionados per le fatali, larghissime omissioni. Le voci che seguono, in realtà, possono esser utili per una prima bozza di questo affettuoso stupidario alla Bouvard e Pecuchet, maestri del necessario inutile e del meravigliosamente irrilevante.
Airone. Ce ne sono stati parecchi ma il più nobile è nato a Gateshead e si chiama Steve Cram. Eccellente anche dietro il microfono.
Altura. In italiano è meglio dire altitudine ma il termine è stato adottato dopo le Olimpiadi di Mexico ’68, quando i record vennero a grappoli e nacque il futuro.
Arti e mestieri. E’ una voce che in realtà contiene una serie di etichette. Ludwig Danek era il fabbro, RosemarieWitschas era la fotografa, Jozef Priblinec la guardia forestale. Con un sempre più aperto professionismo, la moda è caduta in disuso: nessuno si sogna di chiamare Yelena isinbayeva il capitano della milizia ferroviaria della federazione russa.
A spalla. Molto adoperato quando si andava a occhio (umano) e a cronometraggio preso con la prontezza delle dita.
Capitani coraggiosi. Nacquero quando gli americani della 4x400 furono costretti ad arrendersi ai britannici. Fu nel ’36, a Berlino, e una frazione magistrale venne offerta da Godfrey Ramplng, padre di Charlotte.
Diciassettemetri. Sembrò un prodigio quando Jozef Schmidt, che aveva un naso come una prua, li superò. Sono passati quasi cinquant’anni ma chi ci arriva è sempre molto bravo. Un triplista.
Diecinetti. Stesso incipit, ma con un autore diverso, Armin Hary, sulla pista (in terra) del Letzigrund. Oggi chi corre in 10”24 non sveglia la stessa eccitazione.
E via e via tutti gli altri. Lo diceva sempre Paolo Rosi in fondo a una gara di media o lunga durata quando i lontani piazzati arrivavano nella trafelazione del distacco.
Fenicottero. Soprannome che Blanka Vlasic ha usurpato a Jolanda Balas, 140 vittorie consecutive e quattordici record del mondo.
Figlio del vento. In realtà Carl Lewis non ha mai avuto un vero, sostanzioso e decisivo aiuto da parte del suo genitore adottivo. Fosse capitato, sarebbe atterrato a 10 yards, più o meno 9,10.
Freccia del Sud. Ciao, Pietro: eri sempre in orario.
Kaid. Una bella assonanza tra l’etichetta del tocca a un capo e Said (Aouita) che non mancò di battere uno solo dei sentieri concessi dalla pista.
King. Ce ne sono stati tanti ma quello con l’iniziale maiuscola è Kip Keino che stroncò Jim Ryun e quattro anni dopo da esordiente diventò campione olimpico nelle siepi. Ora è un padre nobile con un esercito di figli e produttoree di un eccellente formaggio stile cheddar. Assaggiato.
Locomotiva. Emil Zatopek, per via della motrice che venne battezzata con il suo nome. Ma anche uomo chiamato cavallo. Il suo Grande Spirito era la volontà.
Miler/Migliarolo. In inglese suona meglio, in italiano è meno raffinato. Chi è stato il più grande? Roger Bannister che trovò il passaggio a Nord Ovest dei 4’ o Herb Elliott che finì imbattuto come Rocky Marciano?
Mammina Volante. Nome zuccheroso per l’angolosa signora Fanny Blankers-Koen, la più grande del XX secolo.
Muri. Quando cadono è sempre un gradito fragore e un magnifico supplemento di lavoro. I 6 metri di Bubka mi rubarono un giorno di ferie a Madonna di Campiglio. A quei tempi non c’era internet e vigeva l’arte di arrangiarsi.
Principe Igor. Ter Ovanesian, fantastica somiglianza con Walther Matthau (stessa origine armena), stessa carica, è una dei più simpatici intercettati durate tutti questi anni di voyeurismo atletico. Testimome oculare del volo di Beamon. Non è noto se sia stato lui o Lynn Davies a dire: “Sarebbe l’ora che andassimo tutti a casa”.
Quattroacca. Chi ha deciso di dedicarsi alla distanza che uccide è un cavaliere o un desperado. Normale che si esprima con un certo distacco o risparmi fiato. Gli servirà in gara.
Tempio. Gotzis è quello delle prove multiple, il Bislett di Oslo è stato per lunghi anni quello del mezzofondo (a proposito, fra non molto sarà il mezzo secolo del 27’39”4 di Ron Clarke), il Letzigrund si è diviso tra ostacoli e corse di medio e lungo raggio, l’Olimpico di Roma si è trasformato in moschea grazie a Hicham el Guerrouj.
Trottola. I martellisti ruotano vorticosi ma sono stati sufficienti pochi anni alle loro colleghe per esprimere la stessa velocità. E Il bello è che Anitona (Wlodarzyk) riesce a non soffrire mai di capogiri.
Walkirie. Erano quelle delle Ddr. La più Walkiria di tutte, degna di una parte al Festival di Bayreuth con lancia e corazza, era Petra Felke. Quell’ottantametriesatti avrebbe meritato una voce a sé stante.
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