L'atletica al cinema
05 Novembre 2014di Giorgio Cimbrico
Andiamo al cinema, a vedere e in molti casi a rivedere i film che parlano di atletica. Non sono tanti e comunque sono molto diversi da certe miserelle fiction italiane su pagine dello sport (Pietri, Coppi, Bartali) che, date in mano a un inglese o a un americano, vi avrebbero fatto piangere, ridere, commuovere e via con tutto il repertorio emotivo concesso a chi siede nel buio di una sala.
La retrospettiva prende il via risalendo sino al 1951 quando Michael Curtiz – sì, proprio lui, il regista di Casablanca – gira “Jim Thorpe All American” (titolo italiano, vagamente razzista, “Pelle di Rame”) servendosi della consulenza del più famoso squalificato e riabilitato della storia dello sport olimpico. Quel che Jim guadagna durante la lavorazione e una piccola percentuale sugli incassi gli serviranno per tirare avanti. Sullo schermo Thorpe è Burt Lancaster che aveva un passato sportivo, aveva un gran fisico e così se la cava benissimo in pista, in pedana, da giocatore di baseball e di football, che a quei tempi, non si sa perché, da noi veniva tradotto con rugby.
La corsa diventa un gesto, si trasforma in un simbolo in “La solitudine del maratoneta” (titolo originale “The Loneliness of the long distance runner”, non la stessa cosa) che è del ’62 e prevede l’arrivo in scena di pezzi grossi. L’autore del racconto è Alan Sillitoe, il regista è Tony Richardson, due tra i più Arrabbiati di quegli anni britannici di gioventù, amore e, appunto, rabbia. Il maratoneta, che in realtà pratica la corsa campestre nella squadra di un riformatorio dell’Essex, è Tom Courtenay, viso sofferente, febbrile, disperato.
Vincere può essere un riscatto? Bene, allora lui non vince. Bianco e nero livido, da notti e nebbie. E’ più o meno lo stesso cromatismo – e lo stesso clima - che si può respirare in “Io sono un campione” (vero titolo “The Sporting Life”, dal romanzo di David Storey), con un giovane Richard Harris, desolato eroe della rugby league.
Meno di vent’anni dopo “Momenti di Gloria” (“Chariots of Fire”, da un verso di William Blake che figura anche nell’inno Jerusalem) si colloca agli opposti. Curatissimo (la costumista italiana Milena Canonero conquista, dopo quello per “Barry Lindon” di Stanley Kubrick, il suo secondo Oscar), levigato, con una colonna sonora indimenticabile (Vangelis), porta a Hugh Hudson, il regista, il premio dell’Accademia di Los Angeles come miglior film. Dato per scontato che chiunque si interessi di atletica lo abbia visto, non è il caso di dilungarsi se non per ricordare che, dopo quell’enorme successo, Ben Cross (Harold Abrahams) non ha avuto grande fortuna e Ian Charleson (Eric Liddell) è morto di Aids a 40 anni mentre stava recitando Amleto. E andata molto meglio a Ian Holm (Sam Mussabini), Bilbo Baggins nel Signore negli Anelli e a 83 anni ancora sulla breccia.
Due anni dopo, nell’83, D.S Everett decide di girare “Running Brave”, la storia della clamorosa vittoria di Billy Mills nei 10000 di Tokyo ’64. Non è mai arrivato in Italia ma Mills, ovviamente chiamato a dare una mano, sostiene che il risultato è buono. Sullo schermo Billy è Charles Benson e nel cast si ritaglia una parte Graham Greene, pellerossa doc.
In “Balla con i Lupi”, è Uccello Scalciante, l’amico di John Dunbar, vale a dire Kevin Costner che di film sportivi ne ha girati parecchi, ma sul baseball e il ciclismo.
Poco più di cinquant’anni dopo quello che venne definito il Miglio del Miracolo, la prima discesa sotto i 4’ ad opera di Roger Bannister, Charles Beeson girò “Four Minutes”, affidò la parte di sir Roger a Jamie Maclachlan e quella del’allenatore a una delle istituzioni del teatro e del cinema britannico, Christopher Plummer. Qualche licenza narrativa – proprio come fece Hudson in “Momenti di Gloria”, facendo infuriare Lord Burghley, marchese di Exeter – ma anche un prodotto solido, godibile per chi ama quell’impresa e si commuove davanti alla foto dell’arrivo.
Il 2015 si avvicina: sarà il centenario di molte cose e una è la tragica impresa di Gallipoli, quando gli Alleati provarono uno sbarco che doveva portarli a conquistare Costantinopoli e a mettere in ginocchio l’Impero Ottomano. Fu un disastro e a pagarne le più spaventose conseguenze toccò al corpo di spedizione australiano e neozelandese, l’Anzac. “Gallipoli” di Peter Weir, quello di “Truman Show” e “Master and Commander”, è la storia di quell’insensato macello organizzato da un quarantenne Winston Churchill ed è anche la vicenda di due giovani australiani (Mel Gibson e Mark Lee) che corrono le 100 yards sull’erba in quella lega di professionisti che non si vergognavano di raccattar qualche ghinea facendo vorticare le gambe. Finiscono portaordini su quelle balze turche, in quelle raffiche.
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